Ai primi posti nella lista nera dei desaparecidos del noir, i grandi autori di un genere popolarissimo in Italia che, per ragioni misteriose, sono stati per decenni esiliati dalle nostre librerie, figuravano fino a pochi giorni fa Boilau e Narcejac. Maestri universalmente riconosciuti, i due francesi hanno scritto tra il 1952 e il 1991 una quarantina di romanzi in coppia, alcuni dei quali capolavori del noir, cinque «nuove avventure» di Arsenio Lupin e una serie di libri gialli per ragazzi, senza contare la copiosa produzione individuale. Dalle loro storie sono stati tratti, tanto in Europa quanto negli Stati Uniti, innumerevoli film per il cinema e la tv, inclusi titoli da storia del cinema come La donna che visse due volte, di Hitchcock, e I diabolici, di Clouzot. Era ora che qualcuno – lo ha fatto la Adelphi – si decidesse a pubblicare o ripubblicare se non la loro intera opera almeno i titoli principali, a partire dal primo libro scritto a quattro mani, I diabolici (traduzione di Federica Di Lella e Giuseppe Girimonti Greco, pp. 173, euro  16,00), ribattezzato così anche in Francia dopo il successo del film di Henri-Georges Clouzot ma il cui titolo originale era Celle qui n’était plus.
Quando s’incontrarono per la prima volta in una brasserie parigina, nel 1948, i due scrittori non erano imberbi, né alle prime armi. Thomas Narcejac aveva quarantadue anni e un premio appena vinto per il miglior romanzo d’avventura. Pierre Boileau, di due anni più grande, era incaricato di consegnargli l’onorificenza, da lui stesso vinta dieci anni prima. La scintilla scattò già nel corso della premiazione, in quella birreria parigina. Pochi giorni dopo il primo incontro avevano deciso di scrivere insieme qualcosa, con l’esplicito obiettivo di rovesciare come un guanto le convenzioni del romanzo noir.

Il primo risultato, e uno dei migliori in assoluto, è proprio questo romanzo, pubblicato nel 1952, scritto dunque nel pieno della grande epopea delle dark ladies, le ragazze cattive e ammaliatrici che saltavano da un film all’altro, da un romanzo all’altro, eliminando mariti e rovinando la vita agli incauti amanti che si prestavano al loro gioco.
Per il loro esordio, Boileau e Narcejac scelsero di partire proprio dal più classico e adoperato leit-motiv del noir anni ’40: la polizza assicurativa. Dal Postino di James Cain e da Double Indemnity di Billy Wilder erano già state parecchie le ragazze che avevano sacrificato la loro anima e la pelle dei mariti per quella polizza che voleva dire molto più di quattro soldi in tasca: era la libertà, l’autonomia, l’evasione dalla gabbia ben curata dell’american way of life in versione mogliettina.

Anche nei Diabolici c’è una fatidica e galeotta assicurazione sulla vita, anche se a uccidere qui è il marito, telecomandato da un’amante tanto gelida e calcolatrice da far apparire persino le dark ladies di Hollywood delle collegiali. Una volta scelto l’orizzonte più tradizionale, però, l’allora «nuova coppia» scarta immediatamente. Prima ancora che il delitto si compia, quasi dalla prima riga, si capisce che il protagonista, il marito assassino Fernand Ravinel, è destinato a rivelarsi molto più vittima della vittima propriamente detta. È un uomo debole, del tutto privo di cattiveria, profondamente infelice. Della famosa polizza, gli importa ben poco. Fisicamente, la diabolica amante nemmeno lo attira tanto. A muoverlo è tutt’altro. Insegue un suo confuso e nefasto miraggio, una nostalgia vaga di felicità, che si rivela in controluce come ansia di autoannientamento. La spinta in seguito alla quale uccide una donna che a modo suo ama, quasi solo per compiacerne un’altra che neppure gli piace ma lo domina completamente, gli è del tutto ignota: «Il suo delitto è dovuto a una concatenazione di circostanze insignificanti, di piccole viltà a cui ha ceduto per indolenza… Per avere rimorsi dovrebbe pentirsi. Pentirsi di cosa? A quel punto dovrebbe pentirsi di quello che è. E non avrebbe senso».

La coppia di autori francesi aveva deciso di lavorare, programmaticamente, su quello che sembrava loro il vero punto debole del noir classico, il limitato spessore dei personaggi, l’assenza di conflitti e lacerazioni e pulsioni diverse da quelle più ovvie e elementari. Lavorare sui personaggi non significava tanto renderli più realistici e più vivi, quanto scandagliarne in profondità le zone d’ombra, i vuoti del carattere, le ricerche fallite e approdate di sconfitta in sconfitta allo smarrimento di ogni senso dell’esistenza. Più che Simenon, il punto di riferimento è il contemporaneo romanzo esistenziale francese, da Sarte a Camus.
C’è da sempre, nel noir, un’ingenuità riassunta alla perfezione nella regola alla quale si attiene il commissario Ricciardi, personaggio fisso nei romanzi dell’italiano Maurizio De Giovanni: «Dietro il delitto… faccende di cuore o di soldi». Ancora oggi, per sottrarsi alla tirannia di questa regoletta, gli autori noir non hanno trovato di meglio se non rendere onnipresente la figura del serial killer, l’unica che permette di svicolare dalle vie troppo battute del movente sempre uguale senza doversi in compenso assumere l’onere di fare i conti con le tenebre che spingono al delitto, liquidandole semplicemente con la categoria sbrigativa della follia omicida seriale.

Ma la realtà è infinitamente più complessa e le pulsioni che abitano il versante oscuro della vita non si limitano all’avidità, alla passione. alla follia. C’è una gamma vasta di perversioni latenti, fratture del carattere sconosciute agli stessi personaggi che ne soffrono, morbosità passibili di trasformarsi da un momento all’altro in spinte rovinose. Ravinel non si perde né per soldi né per amore, ma per una voluttà di sottomissione della quale neppure lui è mai davvero consapevole. Fra i tre personaggi del libro Lucienne, la gelida dark lady, domina con tanta facilità tutti gli altri proprio perché è la sola a essere mossa da una pulsione elementare: trovare i soldi per aprire uno studio medico in provincia.
Il modello a cui i due francesi si ispirano, o che almeno gli è più affine, non è James Cain, e neppure Simenon, semmai Cornell Woolrich. Allo stesso modo di quanto accade nei romanzi di Woolrich, i personaggi di Boileau-Narcejac si muovono in una dimensione onirica, abitano in un incubo, come capita a Ravinal quando il corpo della moglie scompare e la morta comincia a ricomparire qua e là per Parigi. Non è solo un espediente narrativo che permette di allestire trame avvincenti: è il riflesso del labirinto nel quale erano prigionieri i personaggi da molto prima di sbandare definitivamente.

Pochissimi autori si sono confrontati con questa dimensione del noir, la sola veramente adulta. I principali sono Alfred Hitchcock, Patricia Highsmith e, appunto Boileau-Narcejac. Probabilmente non è un caso che questi ultimi fossero anche scrittori di romanzi per ragazzi, e del resto l’infantilismo di Hitchcock è noto: da dove arrivano, se non dall’infanzia, gli spettri ben più famelici e inquietanti di quelli a cui ci hanno abituato anche i migliori tra i romanzieri noir, molto più inquietanti della sete di soldi o della gelosia sfuggita al controllo, e persino della mania omicida? Luoghi comuni che possiamo facilmente liquidare con una scrollata di spalle. Ma nei libri migliori di Boileau-Narcejac, come in quelli di Patricia Highsmith, nessuno può cavarsela con un semplice: «non mi riguarda».