L’idea di conferire una mitologia e una mistica alla saga dell’alieno biomeccanico partorito dalla febbrile immaginazione dello svizzero HR Giger non è affatto male. Se il primo Alien, teorico e perfetto, veniva annichilito dalla potenza visionaria di James Cameron e il terzo risplendeva fosco nel malessere finchiano, Prometheus, punto d’abbrivio della nuova saga, tentava, attraverso la sceneggiatura di Damon Lindelof (quello di Lost…) di conferire nuovi elementi a un arco narrativo che sembrava (e forse è) esausto. Motivo per cui, pur nella sua imperfezione, Prometheus non dispiaceva mai del tutto; anzi creava partecipazione solidale proprio nei suoi punti meno coesi percepiti come tentativi di un andare oltre piuttosto problematico.

 
Alien:Covenant, invece, a fronte delle critiche dei fan e addetti ai lavori nei confronti del film precedente, tenta consapevolmente di recuperare il carattere da space opera horror del capostipite della saga. Michael Fassbender ritorna addirittura in un doppio ruolo, l’androide che si rispecchia narcisisticamente nella perfezione biomeccanica dell’alieno, eppure, nonostante la guida sicura di Ridley Scott (talmente sicura che sorge il sospetto del pilota automatico…) il film non riesce mai seriamente a prendere piede.

 
Se Prometheus piaceva proprio per il suo carattere involuto e ambizioso, Covenant non convince per la determinazione con la quale vuole essere un blockbuster pensante non possedendo né la potenza di fuoco né i rischi di opere più complesse (si pensa ancora a Cameron o alle sorelle Wachowski). Ciò che resta è un semplice esercizio di stile privo di suspense e di minaccia.

 
Alien – nonostante le modifiche di design – non si eleva al di sopra di nuovo modello per le action figure che già affollano i negozi. E se il montaggio di Pietro Scalia è sempre perfetto e fluido, fatto di cesure invisibili e salti quasi impercettibili, non si può non constatare che se nemmeno Scalia riesce a iniettare ritmo e energia nelle immagini ci deve essere qualcosa di profondamente sbagliato in tutta l’operazione.

 
Non è un caso se Alien si riduca sul finale a massacrare persone che fanno sesso sotto la doccia come un Jason Vorhees qualsiasi. E che l’alieno fosse già una potente macchina autoerotica e autosufficiente era chiaro sin dal capostipite del 1979. Introdurre questo elemento tipico della retorica slasher anni Ottanta, per quanto possa essere ironico, è assolutamente fuori contesto. Inevitabilmente si giunge alla fine del film esausti dalla pochezza del tutto e dalla scarsissima capacità di immaginare nuove prospettive per Alien.

 

 

Quel che resta, ossia il tentativo di capitalizzare su una franchise e magari integrarla verticalmente – crossmedialmente – con altri elementi (videogiochi, fumetti, giocattoli…) è talmente priva di energie e motivazioni – che non siano economiche – da annullare ogni residuo interesse. Nell’era de I guardiani della galassia, sbagliare in maniera così plateale un discorso che riguarda un elemento centrale dell’immaginario collettivo pop è davvero una cosa grave.
Resta da vedere dove potrà andare Alien ripartendo da questo passo falso e – soprattutto – come risponderà il botteghino. Peccato che Ridley Scott tenti di posizionarsi sullo scacchiere del cinema contemporaneo in forme e modalità tanto banali.