Procedeva lentissimo Mantegna nel dipingere la Camera degli Sposi, tanto che il suo committente, il marchese Ludovico, dovette disperarsi non poco e si vide costretto anche a porre un rigido controllo sui lavori esterni: cercava in tutti i modi di non far distrarre il suo pittore preferito. Voleva un affresco che si reggesse in bilico su una doppia identità: da una parte, doveva documentare la vita pubblica dei Gonzaga e dall’altra, il côté privato.
Alcuni ganci sopravvissuti al tempo fanno pensare alla presenza di un baldacchino per il letto, ma senz’altro quella Camera era stata un ambiente di rappresentanza anche per le riunioni famigliari. Più che i rapporti di potere e i giochi politici, era però destinata a rivoluzionare la storia dell’arte. Una stanza nella stanza, a scatola cinese, che prese l’avvio nel 1465 – come testimonia l’iscrizione scoperta sulla strombatura di una finestra durante recenti restauri – per terminare nove anni dopo, nel 1474. All’inizio, quando Mantegna mise piede tra quelle pareti quasi asfittiche, strette in un torrione angolare cui si arrivava dopo aver percorso corridoi labirintici, vide solo un angusto spazio buio. Prima nella sua mente, poi dal vero, quello spazio subì una meravigliosa metamorfosi, imbevendosi di luce, riempiendosi di architetture illusionistiche, trompe l’oeil, prospettive ardite, volando verso il cielo, insieme ai suoi gruppi di personaggi, tutti dediti a far mostra di sé (non senza un tocco di ironia ad opera dell’artista).

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Autoritratto di Andrea Mantegna

La Camera Picta, infatti, era principalmente un luogo dove esercitare il potere, set teatrale allestito per la corte di Mantova: qui si firmavano documenti, si ricevevano in visita gli ambasciatori, si decidevano le sorti del governo. Soprattutto, attraverso ritratti intensi, l’araldica e quell’insistere sulle relazioni dinastiche, si parlava di sé e del proprio prestigio, si lasciava a futura memoria un albero genealogico in grado di impressionare. D’altronde, siamo qui di fronte a uno dei rari cicli pittorici laici del Quattrocento. Oggi a colpire lo sguardo è la ieraticità dei personaggi illustri unita ad una certa «confidenza» rilevata nei gesti, una immediatezza fisica che risulta del tutto originale nella produzione di Mantegna, almeno fino a quel momento.
Quando, nel 2012, il terremoto devastò l’Emilia Romagna, in molti tremarono alla notizia che quella tragedia avesse toccato anche la Camera degli Sposi, a Mantova. Venne protetta, negata all’accesso per essere monitorata e curata al meglio. Scrigno di grande fragilità, delicatissimo per le sue parti date a secco, destò preoccupazioni fin da subito, tanto che al Mantegna venne chiesto di «racconciare l’affresco» pochi anni dopo la sua esecuzione; l’artista morì prima di poterci rimettere mano e il compito passò ai figli. Dopo, fu la volta dei Lanzichenecchi con i loro bivacchi: nel luglio del 1630, in occasione del sacco di Mantova, la Camera degli Sposi si trasformò in un bel bersaglio per i fucili dei soldati. Infine, cadde in disuso, venne dimenticata e nelle sue mura si formarono minacciose crepe, quando nell’Ottocento il piano superiore ospitò le carceri dei carbonari. Il secolo successivo, fu tutto un frentico succedersi di restauri, per arginare e rimarginare le antiche ferite e per rimuovere i goffi rimaneggiamenti delle pitture.

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Adesso, dopo tre anni di chiusura post-terremoto, intervallati solo da sporadiche riaperture, la Camera Picta verrà riconsegnata al suo pubblico mondiale: il laboratorio di restauro del Complesso museale di Palazzo Ducale ha tenuto sotto controllo l’ambiente dipinto, non abbandonandolo mai per l’intera durata dei lavori di consolidamento strutturale. Visite contingentate – a gruppi di venticinque – pochi minuti mozzafiato con gli occhi rivolti all’«oculo» che sfonda nel cielo azzurro tra puttini acrobatici, per poi tornare indietro, sui propri passi. Che però non saranno più deludenti né disorientanti.

L’adeguamento strutturale della torre nord est del Castello di san Giorgio – una salda cintura la cinge ora, in grado di rispondere a sollecitazioni sismiche – ha rappresentato l’occasione per ripensare l’insieme della «fabbrica turrita», con un percorso museale nuovo, nato per dare risalto alla storia della residenza dei Gonzaga, a partire dalla metà del Quattrocento, quando Ludovico II la scelse come abitazione per la sua famiglia.
Il maniero diventa così un microcosmo dove si intrecciano trame e fili, nel tentativo di evitare l’effetto di spaesamento precedente, quando gli ambienti del Castello confondevano il visitatore, senza proporre soluzioni narrative.

All’interno delle sale, prima spoglie, ha trovato posto la collezione di Romano Freddi, novantanove pezzi unici – dalle maioliche agli arredi e armature, fino a dipinti come il ritratto di Francesco IV Gonzaga, frammenti della pala di Rubens, una crocifissione di scuola giottesca – di cui ben ottantacinque rimarranno in comodato d’uso fino al 2025.

Freddi ha passato la sua esistenza a ricostruire la vita di corte a Mantova, acquistando «brani» perduti in giro per il mondo. «Ha conservato beni destinati alla dispersione fisica e, peggio ancora, all’occultamento della propria storia: nel recupero paziente e costante delle vestigia che appartengono alla sua terra, ha compiuto un atto di tutela e salvaguardia, ma non basta», ha affermato la soprintendente Giovanna Paolozzi Strozzi (prima di lei, avevano lavorato con il collezionista per raggiungere un accordo, fin dal 2011, Stefano Casciu con il funzionario e storico dell’arte Stefano L’Occaso).

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Dalla collezione di Romano Freddi

Il passo successivo riguardava la possibilità di esporre quel lavoro certosino, ricomporre insomma un mosaico filologico, di sicuro fascino. Il percorso appena inaugurato prevede anche una sosta in luoghi prima non accessibili, come i primitivi ambienti dove Isabella d’Este ricavò il celebre Studiolo e l’enigmatica Grotta, oltre alle stanze rinnovate nel 1549 per le nozze di Francesco III con Caterina d’Austria.