Senza i soldi e l’organizzazione della fondazione bancaria Compagnia di San Paolo, decine di migranti non sarebbero stati trasferiti dalle cantine tugurio dell’ex villaggio olimpico di Torino in ambienti più dignitosi. È il cosiddetto stato sociale misto, che integra le risorse del pubblico, inesistenti o quasi, e del privato.

La vicenda degli oltre mille migranti che da anni vivono negli alloggi degli atleti dei Giochi Olimpici invernali del 2006, è paradigmatica del nuovo welfare state, punta di diamante di un modello che mette al centro del sistema previdenziale le fondazioni bancarie, inquadrate come un bancomat aduso a coprire tutto ciò che lo Stato abbandona al suo destino. Lo stato di diritto è diventato una variabile di una cedola azionaria di una banca: più questa è ricca, più ci sono servizi. La Compagnia di Sanpaolo a Torino copre un po’ tutto: dagli asili alle mostre d’arte, corsi di formazione, ora l’emergenza migranti. Senza le sue risorse, semplicemente, la civiltà a Torino avrebbe un livello decisamente più scadente.

Eppure la fondazione bancaria è pur sempre il primo azionista della banca, Intesa Sanpaolo, che ha in mano una parte del debito che mette in difficoltà, da anni, la città. Dopo i Giochi del 2006 le palazzine, costruite con fondi pubblici, furono abbandonate: in origine si tentò perfino di venderle, ma scadente qualità, prezzo elevato e crisi immobiliare contribuirono al loro abbandono.

È di questi giorni la non notizia, dato che si tratta della conferma sul piano giudiziario di voci ampiamente diffuse in città, che l’intero complesso fu costruito con i soldi sporchi di una cosca criminale radicata a Torino che riciclava i soldi del traffico di cocaina. Le palazzine, quando il debito “pubblico” di Torino divenne ipertrofico, finirono in un fondo immobiliare denominato FCT, in cui sono presenti come azionisti il Comune di Torino, l’immobiliare Prelios ed Equiter, un ramo di Intesa San Paolo.

Fondo che diede loro un valore puramente contabile: fino a quando, nel 2013, un’azione dei centri sociali torinesi fece vivere una occupazione di massa che, in quattro anni, non ha mai arrecato gravi problemi al quartiere. Erano i mesi postumi alla fine dell’operazione «Emergenza nord Africa», rimasta celebre come greppia che non dava l’assistenza ai migranti e, contemporaneamente, ingrassava i “buoni” italiani che speculavano sulla vita degli ultimi.

Amministrazione comunale, Diocesi, Ministero, Città Metropolitana e Prefettura hanno concordato un piano di trasferimento per gli abitanti dell’intero complesso che dovrebbe concludersi entro due anni. Alla base del progetto l’individuazione di «posti letto», nonché un lavoro a tempo determinato della durata semestrale. Man mano che i migranti verranno spostati gli spazi saranno chiusi, così lo stabile tornerà in possesso della proprietà. L’operazione è iniziata in questi giorni dagli scantinati, dove vivevano circa settanta tra uomini e donne: i bambini, numerosi, sono tutti alloggiati negli appartamenti.

Il piccolo bar situato al centro delle palazzine è il cuore della comunità. Non manca una piccola sala che funge da dopo scuola, diverse officine per biciclette, un barbiere. L’ex Moi è infatti una città nella città in cui i migranti ieri si domandavano quale destino li aspetta. Terminata la prima fase, che ha risolto dopo anni una condizione in cui erano assenti i livelli minimi di civiltà, ora si tratta di capire cosa sarà di coloro che vivono negli appartamenti. Che, come si evinceva dalle parole che ieri pronunciavano nel piccolo bar, non sono per nulla convinti del piano. Molti temono di perdere un rifugio sicuro, in cambio di un processo privo di certezze, che in poco potrebbe riportarli sulla strada.