Ad appena pochi chilometri dallo sfavillante centro barocco, dai suoi centomila aperitivi quotidiani, e dalla movida che Torino non sa più se piaccia o no, un piccolo grande evento ieri mostrava il volto della città invisibile: l’apertura, alla presenza delle autorità cittadine, di un micro market nel quartiere Vallette. Spianata di cemento e palazzi, solcata da bucoliche vie – viale dei mughetti, via delle primule, glicini, magnolie, pervinche – periferia inesistente nelle mappe che stringono tra indice e pollice i turisti che si accalcano nel centro storico bomboniera. Qui, un tempo feudo operaio e rosso, il M5s ha stravinto, come del resto in tutte le altre periferie.

ASSESSORE AL COMMERCIO con fascia tricolore, presidente della Atc locale, presidente della Circoscrizione V, consiglieri comunali, hanno tagliato il nastro giallo e blu, i colori della città, tra gli applausi di centinaia di cittadini: come se fosse una scuola, un asilo, un presidio sanitario. Basterebbe questo per spiegare cosa sia diventata Torino: una città dove la crisi in talune zone ha picchiato così duramente da far perfino sparire i supermercati, creando così nuove debolezze che si sommano a quelle vecchie.

NEL MOMENTO IN CUI  le forbici incidevano il nastro e lo spumante riempiva i bicchieri di carta nel quartiere Vallette, il Comitato Rota presentava l’atteso «Rapporto annuale su Torino», librone che ogni anno racconta la città da un punto di vista socio economico. Quest’anno dal titolo evocativo «Recuperare la rotta».
Presentazione carica di aspettativa perché Torino in questi giorni è scossa dal dibattito «declino sì, declino no», nato dopo la presentazione dei tagli al bilancio che la sindaca Chiara Appendino imporrà alla città nel prossimo triennio: oltre duecento milioni.

IL RAPPORTO DELUDE tutti coloro che aspettavano strali sull’attuale compagine di governo, perché i dati arrivano fino al 2014. La condizione torinese attuale è riassumibile in questa frase: «La situazione dei giovani esclusi dal mercato del lavoro, in particolare, mostra per Torino una sorta di paradosso: in una delle città del pianeta con meno giovani, si registra un tasso di disoccupazione giovanile molto elevato, analogo a quello di diverse realtà del Meridione italiano».
Quindi il ripiegamento c’è ed è, come noto da tempo, strutturale.

IL GIGANTESCO DEBITO contratto con il sistema bancario, al fine di attutire l’impatto della deindustrializzazione di massa con forti investimenti in infrastrutture e cultura, presenta il suo volto feroce nel triennio 2017- 2020: a cui la sindaca risponde con manovre centrate sul primato dell’austerità.
Il piano di rientro taglierà la spesa sociale, privatizzerà servizi, in particolare si teme per la gestione degli asili pubblici, e aggiungerà altri pezzi di Torino sul mercato, in vendita al migliore offerente. Sia per i beni immobili che per varie quote azionarie in partecipate strategiche, Iren su tutti.

UN PICCOLO, MA DENSO LIBRO di recente pubblicazione, «Poveri. Voci dell’indigenza. L’esempio di Torino». (Neos edizioni), di Fabio Balocco, mette in luce il contesto dove questi tagli incideranno. Scrive l’autore: «Secondo il Ministero delle Finanze (dati 2014) a Torino circa un quinto della ricchezza incassata ogni anno dai suoi cittadini finisce nelle mani di un modesto 3,5 % della popolazione. La fascia dei torinesi con redditto annuale al di sotto della soglia di povertà assoluta è pari a 154.000 contribuenti. Nell’anno 2016 le richieste di sfratto per morosità, sempre nell’ambito del Tribunale di Torino, sono state 3921». Ma, sostiene l’autore, «ormai la maggioranza dei poveri sfugge a qualsiasi statistica».

CONSAPEVOLE DI INCIDERE nella carne e nel sangue della città, la sindaca nei giorni scorsi ha rilasciato diverse accorate dichiarazioni, addebitando la responsabilità di questa deriva a chi l’ha preceduta. Ne è nato un dibattito in cui i protagonisti del «rilancio» rivendicano la bontà del loro operato e la accusano di essere l’artefice del «declino», in primis Sergio Chiamparino, Piero Fassino e Valentino Castellani. Chiara Appendino risponde negando il «declino» della città, cadendo così in una trappola semantica fin troppo evidente, ma paradossalmente rivendicando i risultati delle trasformazioni urbane, che però critica da un punto di vista economico.

Marco Revelli, tra i primi a essere indicato come «gufo» durante la grandeur torinese dei primi anni duemila commentava ieri: «Risulta incredibile che si scopra solo oggi la crisi di Torino. Questo stupore di Repubblica e La Stampa rispetto i buchi neri e l’impossibilità che la città del loisir di sostituire la manifattura mi lasciano senza parole. La sindaca Appendino non ha reso Torino minimanete più ricca, non ha grandi idee per come ovviare al debito e ai disastri, e non ha molti meriti. Però almeno oggi se ne parla. Il 30 di Marzo del 2016 Matteo Renzi venne a sostenere Fassino, portandogli una terribile sfortuna, e disse: «Torino è abituata a stupire e continuerà a farlo». Non sapevano, tutti, in che città vivevano».

COSÌ, ESORCIZZATO come un demone o un dio iroso, viene rimosso il cuore del problema torinese, e per molti versi italiano: il rapporto tra democrazia e debito. Il programma del M5s affrontava questo tema in senso redistributivo, ma oggi dopo il piano di rientro prospettato si può sostenere che quelle idee, parafrasando Borges, sono un ramo della letteratura fantastica.

Da palazzo civico, il mantra tatcheriano si ripete: non c’è alternativa. Confermando il vecchio adagio secondo cui non esiste peggior ortodosso di chi è stato eretico. Perché si tratta di una gigantesca redistribuzione della ricchezza sì, ma dal basso verso l’alto. I 202.754 voti presi dalla sindaca non «valgano» come tre miliardi di debiti. In questo senso la querelle tra vecchie e giovani leve della politica è ancor più bizzarra, perché entrambi seguono il principio del «ripianamento» a tappe forzate.

LO HA PERFINO DICHIARATO ieri l’ex sindaco Piero Fassino: «Mi sono sempre adoperato per portare avanti un piano di rientro, senza limitarci a piangere come fa la sindaca. A termine del mio mandato il debito è sceso, così anche l’esposizione verso le società partecipate e i derivati». Piero Fassino si vanta di aver tagliato i dipendenti comunali del 10% con «contenimento del costo del personale», nonché di aver portato a termine «quattrocento milioni di dismissioni tra partecipazioni e immobili».
Ovvero il doppio di quanto annunciato dalla Sindaca: anche perché di pubblico non c’è più molto da vendere, tagliare o regalare.