«Esageruma nen», Non esageriamo. Una frase di cui Sergio Chiamparino, sindaco di Torino dal 2001 al 2011 e dal 2014 Presidente della Regione Piemonte, potrebbe vantare il copywright ‘morale’. Esageruma nen suona invito alla moderazione, a non fare le cose (e i problemi) più grandi di quello che sono, a non cadere nel trionfalismo. L’elettorato sabaudo gradisce molto il Chiampa, sorridente ma non troppo, cordiale ma riservato, accento sabaudo e frequente impiego dell’idioma, bicicletta per muoversi in proprio, sobrietà nel vestire. Il suo successore Piero Fassino non ha certamente il carattere di Sergio. Di lui, tuttavia, sono rassicuranti la sobrietà appena citata e la decisione, dopo l’insediamento al Comune, di dimettersi da deputato. Chiamparino e Fassino danno una somma amministrativa pari a quindici anni, durante i quali Torino è diventata una nuova città, soprattutto sulla spinta delle Olimpiadi Invernali 2006. Nuova nel volto urbano del centro, nell’orientare le proprie scelte verso la cultura, nell’intento di cancellare un’immagine ancora legata alla storia della Fiat, nel voler uscire dai confini del provincialismo. Il riscontro più immediato e positivo viene da chi a Torino non c’era mai stato, o la ricordava triste e grigia negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso. Il Comune vanta gli investimenti mirati all’interesse collettivo, l’oculatezza amministrativa pre e post Olimpiadi nella gestione delle grandi opere, la riqualificazione delle periferie e delle aree un tempo industriali. Torino, dunque, sembrerebbe profondamente cambiata.

E invece molte criticità restano, i conti comunali lampeggiano in rosso, progetti importanti vanno avanti con lentezza esasperante, emarginazione e inadeguatezza regnano nelle periferie. Questo e altro sostiene un volume appena uscito per Arianna Editrice, Torino oltre le apparenze, sottotitolo Grattacieli, grandi eventi, Disagio sociale, Povertà, firmato da Fabio Balocco, Piero Belletti, Paolo Ghisleni, Maurizio Pagliassotti, Emilio Soave, dell’Associazione Pro Natura. Guido Montanari, docente di storia dell’architettura della città al Politecnico di Torino, ha seguito da vicino il percorso del libro «Torino è un caso – studio molto interessante, perché nel giro di quindici anni ha trasformato sei o sette milioni di metri quadri coperti dalle fabbriche e altrettanto farà con quattro ulteriori milioni. Il tutto partendo dal Piano Regolatore del ’95, e grazie, tra gli altri, ai forti investimenti per le Olimpiadi Invernali del 2006 e il Passante Ferroviario. Questo cambiamento raccontato in modo elegiaco, con l’avallo dell’Università e di intellettuali, dei proprietari delle grandi aree e dei grandi costruttori, presenta però diverse crepe. Nessuno sostiene che il passaggio da città stretta in una crisi economica iniziata negli anni ’80, con le fabbriche chiuse, la cassa integrazione, la delocalizzazione, la disoccupazione, a una città ‘altra’, sia un’impresa semplice. Ma incredibilmente, all’interno di un laboratorio di tale portata non esistono spazi per la discussione critica e il dissenso. Si sono formati decine di comitati contro un parcheggio, in difesa di un’area verde, dubbiosi di fronte a una grande o piccola opera, senza che abbiano ottenuto ascolto dall’amministrazione. È un segnale contraddittorio». Segnale che arriva, sempre secondo Montanari, da un nucleo di comando in cui sono confluiti la vecchia sinistra del PCI, i detentori del potere industriale, le banche con la bi maiuscola, un po’di Terzo Settore e di Università. Una saldatura all’insegna del va tutto bene e quindi non c’è niente da discutere. Torino oltre le apparenze, conclude Montanari, non si propone come cahier de doleances, atto accusatorio. Piuttosto evidenzia temi che sarebbero da approfondire e sui quali mancano le risposte.

Metamorfosi con debiti

Un paragrafo del capitolo ‘La città che non c’era e la Torino di oggi’, firmato da Emilio Soave, si intitola ‘Le Olimpiadi invernali del 2006, emblema di una metamorfosi’. Dal si alla candidatura, il 19 giugno 1999, secondo mandato di Valentino Castellani sindaco, alla cerimonia di inaugurazione, costo dieci milioni di euro, il percorso, complicato da scenari politici ed economici, è troppo lungo per trovare una sintesi in queste pagine. Alle Olimpiadi, Torino si presenta, comunque, con tutte le carte in regola: strutture sportive e di servizio pronte, piazza San Carlo e Vittorio restituite all’originaria bellezza, le facciate dei palazzi d’epoca scintillanti, la linea uno della metropolitana praticamente conclusa. Certo, fuori dai tragitti che i turisti percorrono ogni giorno più volte al giorno, non si contano i cantieri aperti, le auto in coda, le deviazioni labirintiche. Ma è il prezzo da pagare alla metamorfosi. Le Olimpiadi finiscono, i bilanci dovrebbero essere specchio del loro successo. Proviamo a farli con l’aiuto degli autori del libro. L’amministrazione Chiamparino ha più volte dichiarato che la kermesse sportiva è stata finanziata soltanto con risorse locali, senza ricorrere a leggi speciali e aiuti di stato. Lo contraddicono i 1091 miliardi di lire stanziati dal governo Amato con le legge 285 del novembre 2000, divenuti poi 1550 miliardi di euro, destinati a impianti, opere connesse e viabilità. Le risorse della 285 vengono contrattate a livello politico tra Comune e Regione; gli appalti eludono le normative, tant’è che nel 2007 un’indagine della Corte dei Conti sull’operato dell’Agenzia Torino (istituita dal governo e unica appaltante delle opere) evidenzierà ingenti sprechi e mancanza di controlli. Nel 2005, dati statistici nazionali bollano la città come capitale del lavoro nero e del precariato. Per arrivare all’apertura del sipario olimpico, l’amministrazione ha dovuto indebitarsi non poco, a cominciare dalla metropolitana e continuando con sottopassi, passanti ferroviari, parcheggi di interscambio, interventi straordinari. Molte le perle dell’inutilità. La nuova Biblioteca, progetto dello Studio Bellini costato 16 milioni e mezzo, nella Spina 2, area Nebiolo – Westinghouse, e mai realizzato; il Padiglione dell’Abbigliamento, 10 milioni e mezzo, disegnato da Massimiliano Fucksas, autore del costruendo grattacielo della Regione; l’Arena Rock della Continassa, appalto del 2004 tre milioni di euro, diventati cinque e mezzo nel 2009, salvo poi la cessione dei terreni allo Juventus Club. Altri campioni di inutilità la passerella dell’Arco Olimpico, 14 milioni e mezzo; i padiglioni Atrium in piazza Solferino, 5 milioni per costruirli, una cifra rilevante ma rimasta ignota per allestimenti, gestione e demolizione finale. Secondo una ricerca di Civicum con il Politecnico di Milano, le Olimpiadi sono state il motore di un indebitamento che costa a ogni cittadino 5781 euro. Il deficit Castellani del 1993 era di 121 miliardi di lire, ribaltato in un attivo di 98 miliardi a fine ’96. Nel 2003, il debito ammontava a un miliardo e 600 milioni, ma di euro; a 2 miliardi nel 2005, a due miliardi e 880 milioni nel 2006, a 3 miliardi o poco più nel 2009. Tale è rimasto negli anni a seguire. La ‘colpa’ sta nella spesa per gli investimenti, gestita attraverso mutui bancari con Intesa SanPaolo e Unicredit in prima linea, Cassa Depositi e Prestiti, Banca Europea. Duecento milioni annuali di interessi e forse più.

Olimpiadi ai privati e caccia ai Grandi Eventi

Alla voce riutilizzo degli impianti sportivi le cose sono andate nel verso giusto? Niente affatto, afferma Soave «Gli impianti sono costati circa seicento milioni, poi sono passati ai privati in cambio di una cifra complessiva di due milioni. L’unico a rendere è il PalaIsozaki, oggi Pala Alpitour, dove si svolgono in prevalenza concerti che certo non rientravano nell’idea di ‘Fabbrica dei grandi eventi’. Poi c’è l’Oval, in affitto simbolico alla GL Events, cordata di imprenditori che lo subaffitta a cifre esorbitanti per manifestazioni quali il Salone del Libro». Il MOI, ex Mercato Ortofrutticolo all’Ingrosso, merita l’etichetta della vergogna. Quello che per una manciata di settimane era stato il Villaggio Olimpico, si sta sgretolando in totale abbandono e denuncia le sue carenze costruttive: pareti di cartongesso, infissi di pessima qualità, intonaci esterni che si sfaldano. Dentro questo paese fantasma hanno trovato precario riparo migranti e profughi. Soave non usa mezzi termini «Il complesso, per quanto scadente, doveva essere recuperato e destinato a edilizia residenziale pubblica o a residenze universitarie, la cui domanda viene soddisfatta costruendo in zone dismesse, e quindi consumando un patrimonio importante». Voce attiva delle Olimpiadi è il turismo che, nonostante un naturale ma significativo decremento nel 2007, sta raggiungendo numeri italiani ed esteri di qualche importanza. Anche qui, però, affiorano lacune. Se da un lato si è compiuto un deciso passo avanti nel sistema museale cittadino, solo la reggia di Venaria ha ricevuto benefici tra le cosiddette Residenze Sabaude tutelate dall’Unesco. Altri gioielli ‘a portata di turista’ sono chiusi, inagibili, sotto utilizzati. Tuttavia, pur se ogni cosa funzionasse alla perfezione, Torino non arriverebbe mai ad essere considerata città d’arte. Gli amministratori ne sono coscienti, e scelgono la strada dei Grandi Eventi. Dal 2007 si susseguono le Universiadi invernali, il Congresso Internazionale degli architetti, Torino capitale europea del design, due ostensioni della Sindone (2010 e 2015), Torino Capitale Europea dello Sport. Ostensioni a parte, i Grandi Eventi passano quasi inosservati, divengono occasioni sprecate, somigliano a fiere di piazza. Nel 2011 L’Italia celebra i 150 anni della sua unità. Un boccone ghiotto. La candidatura torinese prevede una spesa di un miliardo e 701 milioni, di cui 662 dal governo. Prodi decide che le celebrazioni appartengono a tutti, Torino riceverebbe 250 milioni. Poca cosa, resa ancor più piccola dal ritorno di Berlusconi. La prima capitale del paese festeggerà i 150 con tante bandiere appese ai balconi, adesivi sulle vetrine dei negozi e due mostre nelle ex Officine Grandi Riparazioni (OGR), attrezzate dal comune stanziando mezzo milione di euro. Fare gli italiani e Stazione futuro costeranno sedici milioni: sette da Intesa SanPaolo, cinque dalla pubblica amministrazione, quattro dal deficit del Comitato Italia 150. Il domani delle OGR, poi acquisite dalla Fondazione CRT, rimane sospeso dietro le impalcature dei quartieri.

Torino non recupera

Le ex Officine sono uno dei tanti, tantissimi luoghi che la città potrebbe sfruttare per un’edilizia di tipo sociale, per alloggiare gli universitari, per offrire spazi alla cultura diffusa. Recuperare, convertire, sono verbi che nelle stanze comunali si continuano a declinare all’infinito. Spiega Montanari «Il tema del recupero a Torino sarebbe stato molto interessante. I tanti edifici di archeologia industriale, alcuni veri e propri gioielli, sono stati penalizzati da una visione miope e molto provinciale. Se a Torino non fai concorsi, se gli studi di architettura, sono sempre i soliti quattro, come le imprese, anche la qualità ne risente. Prendiamo la Materfer (ex azienda Fiat nel comparto del materiale ferroviario, ndr). Hanno buttato giù i capannoni d’epoca, tenuto le facciate, e dietro hanno costruito un capannone nuovo per un centro commerciale. Penso che l’incapacità di ripensare un quartiere operaio, o l’area dove sorgeva una fabbrica, sia un fatto gravissimo». «La rigenerazione del tessuto urbano è in grado di garantire forti ricadute e noi abbiamo messo in campo diversi progetti che riguardano zone lontane dal centro». Piero Fassino all’assemblea della Confartigianato, 20 settembre scorso. Paolo Ghisleni, Torino oltre le apparenze, capitolo ‘La Torino delle trasformazioni’ «I dieci milioni di metri quadri sui quali le trasformazioni sono avvenute e avverranno rappresentano il dieci per cento della città. Quindici se aggiungiamo il centro storico. Il rimanente sono quartieri a ridosso del centro, fermi agli anni ’60 e ’70, quando l’abbassamento della vivibilità fu causato dalla motorizzazione di massa. Dentro impianti urbani obsoleti, di modello ottocentesco, si scarica la pressione esercitata da residenti, servizi sanitari, istruzione, commercio, studi professionali, eccetera. Il recupero di aree industriali dismesse avrebbe potuto attenuare il disagio quotidiano, localizzandovi scuole, verde pubblico, strutture di assistenza. Invece, nei quartieri, regnano le auto parcheggiate in doppia fila, sui marciapiedi, a centro strada. Sempre in tema di vivibilità, pensiamo, per esempio, a una panchina in pezzi dentro un giardino pubblico. Un tempo, gli operai del comune l’avrebbero sostituita nel giro di poco. Adesso, con l’assegnazione per appalti, la panchina rimane lì, in pezzi, per chissà quanto tempo».

Il disagio dimenticato

Nelle periferie più lontane si accentua il discorso dell’emarginazione sociale, della povertà, delle migrazioni. Su questo è incentrato il terzo capitolo del libro, autore Fabio Balocco «I numeri della Torino sotterranea contraddicono l’immagine della Torino sfavillante. La città ha in proporzione il più alto numero di sfratti in Italia, 4729 nel 2014; analogo discorso per le espropriazioni immobiliari, 3436 nel 2013. Gli appartamenti sfitti sono trentacinque/sessantamila, eppure non si smette di costruire. La forbice tra ricchi e poveri continua ad allargarsi, lo ha sottolineato il vescovo Nosiglia parlando delle file davanti alla Caritas per un pasto. A fronte di ciò, Torino detiene il record nazionale negativo dei costi dei servizi, dall’acqua alla raccolta rifiuti. La collaborazione tra Comune e associazioni di volontariato è pressoché inesistente. Ognuno deve arrangiarsi come può. Il centro sociale Gabrio, a San Paolo, per esempio, supporta singoli e famiglie indigenti. L’iniziativa privata tenta di supplire alle carenze del potere pubblico». Dietro ogni maschera che cala c’è un volto. I suoi tratti li disegna Emilio Soave «All’inizio di questo lungo ciclo politico esisteva una certa capacità innovativa, che coinvolgeva politici allora abbastanza giovani e provenienti da varie esperienze. Questo processo è rimasto sostanzialmente bloccato. I politici, un centinaio circa, nel frattempo sono invecchiati, cambiando ruolo sono rimasti in gioco. Nessun cambiamento è avvenuto. Salvo il recupero della dirigenza Fiat, che per il Chiamparino del primo mandato rappresentava una risorsa umana da utilizzare nelle istituzioni culturali, nelle amministrazioni, nelle partecipate. Il rinnovamento è più che mai necessario. L’alt arriva da una coalizione che ha avuto successo e quindi nessun interesse a smuovere le cose». Notizia del 28 settembre: InfraTo, che gestisce le infrastrutture dei mezzi pubblici, diffida GTT, il Gruppo Torinese Trasporti, debitore di oltre venticinque milioni. Notizia del primo ottobre: al J Museum inaugura la mostra permanente ‘I campioni che tifano Juventus’. Tutto quanto è nato e nascerà intorno allo Juventus Stadium occupa una superficie di 350mila metri quadri, i cui diritti sono stati ceduti dal Comune alla società per novantanove anni al prezzo di venticinque milioni, un euro circa a metro quadro/anno. Tutto è cambiato, nulla è cambiato.