La filosofia portante dell’appena concluso Torino Jazz Festival, giunto alla terza edizione, le ultime due delle quali sotto la direzione artistica di Stefano Zenni, è emersa con evidenza: il jazz oggi non è un’espressione artistica per pochi specialisti, ma piuttosto un linguaggio libertario, globalizzato e aggregante destinato a tutti. Da qui è conseguita la sua politica organizzativa: largo spazio anche alle giovani leve del jazz italiano, concerti gratuiti o a basso costo, la varietà delle sedi coinvolte, un’ampia gamma stilistica e culturale delle proposte, includendo anche musiche extra jazzistiche.

Fra presentazioni di libri e proiezioni di film (in particolare quello sul pianista inglese Stan Tracey), i concerti erano articolati su vari palcoscenici principali e nella debordante sezione Fringe, coordinata da Furio Di Castri. In piazza Castello, riservata agli appuntamenti di grosso richiamo, nelle tre serate che hanno preceduto il primo Maggio hanno spiccato le malie africane di Manu Dibango e quelle brasiliane di Caetano Veloso.

In teatro invece si sono svolti i concerti di maggior interesse jazzistico, dove spiccava il live set di Kenny Barron e Dave Holland. Il pianista e il contrabbassista hanno costruito un set di ineludibile classicità, in cui la solida potenza espressiva si è coniugata con un’arabescata eleganza, un rigoroso equilibrio formale non ha escluso un lirismo poetico. Del tutto diverso l’impatto del Louis Moholo – Moholo Special Unit, del quale si è potuta apprezzare l’autenticità dell’omaggio ad una tradizione originata oltre mezzo secolo fa, quando uno stuolo di musicisti sudafricani, bianchi e neri, decise di emigrare stabilendosi a Londra. Purtroppo l’acustica riverberante dell’auditorium del Conservatorio Giuseppe Verdi non ha giovato ai riff e agli impasti armonici dei palpitanti collettivi del settetto.

Una diversa tradizione è risuonata nelle note del Cordoba Reunion. Il quartetto, nato nel 2000, ha confermato una notevole coesione, derivante dalla densa esuberanza espressiva che lo caratterizza e dalla comune matrice culturale argentina dei suoi membri, tutti originari di Cordoba: Javier Girotto ai sax e flauti, Gerardo Di Giusto al piano, Carlos El Tero Buschini al contrabbasso e Minino Garay alle percussioni.

In due diversi concerti Stefano Battaglia ha proposto un progetto su cui lavora da anni, reinterpretando le composizioni di un autore misconosciuto come Alec Wilder. Nelle Art Songs si è concretizzata una narrativa ricca di finezze dinamiche, di colori esotizzanti, di sviluppi melodici dalle ampie e incantatorie volute. L’enfasi emotiva del pianista era assecondata dalla rotonda cantabilità del contrabbasso di Salvatore Maiore e dalle minute trame ritmiche di Roberto Dani. Nella rivisitazione delle «Popular Songs» invece, anche a causa delle diverse condizioni ambientali, è risultata più diretta e asciutta l’energia profusa dal quartetto diretto da Battaglia con Avishai Cohen alla tromba, Joe Rehmer al contrabbasso e Fabrizio Sferra alla batteria.

Il cartellone ha ospitato anche il Jimmy Cobb Italian Trio con ospiti l’inossidabile Sheila Jordan o Scott Hamilton e le varie formazioni, dai diversificati approcci stilistici, comprendenti sempre il pianista norvegese Jon Balke. Date spesso rigorosamente sold out. Oltre ai singoli concerti, durante il festival tutto il centro storico di Torino è stato invaso dal jazz con brevi set notturni di solisti collocati su una zattera al centro del Po (Rosario Giuliani, Antonello Salis, Avishai Cohen…), mentre gli spettatori erano assiepati lungo le rive.