Secondo l’artista Nicolò Taglia, l’uomo sarà presto chiamato a gestire una natura pronta a esplodere nelle città abbandonate. «Mi affascinano le prospettive inaugurate dal contatto di ritorno tra cementificazione e verde», spiega. «Qui a Barriera di Milano, presso la confluenza tra Stura di Lanzo e Po, troviamo l’avanguardia dei palazzi di confine edificati lungo la Strada dell’Arrivore, in direzione dei due fiumi, periferia nord est di Torino. Gli orti urbani aperti in questa zona franca dovrebbero servire da ammortizzatore sociale: insegnare a risparmiare, portando a casa cibi genuini cresciuti con il proprio impegno, e bonificare l’ambiente».
Torino sa che la sfida del futuro è la decrescita felice. Capitale industriale, sulla scia del miracolo economico si era espansa priva di alcuna autocoscienza, inglobando campi e seminando fabbriche nel loro ventre. Crollato il “secolo breve”, il sistema è imploso e le piante hanno riconquistato le posizioni smarrite. Come una minaccia, senza la controparte di un colloquio con la cittadinanza.

Ultime sentinelle, chiamate dal Comune alla pratica degli orti urbani, sono gli operai in pensione, in gran parte originari del sud, figli di contadini che scendono a patti con l’universo vegetale, armati di zappa e vanga, abiurata la falce, deposto il martello.

Prima di accompagnarci all’Arrivore, Nicolò ci mostra i risultati ottenuti con l’associazione Variante Bunker. In tre anni, a partire dal 2011, i terreni incolti ereditati da un’area industriale dismessa sono stati risanati dall’eternit e trasformati in un giardino condiviso, utilizzando tecniche biologiche e un pozzo di falda, tra sperimentazioni di musica e di street art. I binari dello Scalo Vanchiglia appaiono invasi da pioppi, frassini, olmi, ailanti; ci sono delle arnie. «Preferisco lavorare con altri artisti, lanciando progetti pilota che precedono la loro istituzionalizzazione», dice Nicolò.

Perché, all’Arrivore, sono le istituzioni a provarci. A due chilometri dal Bunker, c’era il Toxic Park, c’era un campo nomadi sgomberato rudemente; resta ancora qualche siringa. Gli orti comunali sono qui il legante immaginato dalla politica affinché il tessuto sociale tenga.

Pasquale Costantino, affidatario del lotto numero 1 dal 2011, è nato a Lavello (di Lucania) e vive a Torino dal 1961. Il suo vicino è Donato Metta, di Canosa di Puglia: «Il paese di Lino Banfi». La compagna Dorina Coltan racconta che nessuno dei due aveva esperienza di orticultura. «Lo scorso anno – dice – andavamo al mare; adesso l’orto è il nostro bambino, non possiamo abbandonarlo».

DONATO È EMIGRATO A TORINO NEL 1965, per cercare fortuna da decoratore. «Nel 1969 sono passato alla Fiat», ricorda. «Due anni dopo però sono andato via: c’erano troppi scioperi e io desideravo soltanto lavorare. Mi chiamavano coniglio». Pasquale, operaio di lotta, ricorda invece quasi con rimpianto le cariche della polizia. Non si dice comunista, ma un ribelle che in cambio del rispetto dei doveri pretende tutti i diritti. «La mia famiglia possedeva in Lucania venti ettari di ulivi, grano, mandorli, viti; poi papà, quando avevo cinque anni, rimase paralizzato. Conducevamo una vita grama, ma tranquilla. Non ci mancava niente: né le cicale, né le rane. Ascoltare una campagna silenziosa come questa dell’Arrivore mi fa impressione, tuttavia mi ricorda l’infanzia».

Scatta qui un cortocircuito insanabile: Pasquale si trova bene, ma non vuole accettare le regole di una campagna che non è la sua. «Avevo portato dalla mia terra natale un fico e una bella pianta mi era cresciuta», scandisce nervosamente. «L’anno scorso me l’hanno fatta sradicare, perché avevo violato il regolamento. Io, che sono un lucano testardo, ho però letto Opzione Zero: parla di coloro che hanno il timore di sbagliare e, per non commettere errori, nulla fanno. Questo ho pensato quando la direzione mi ha detto: o rimuovi il fico, o te ne vai. Ma che aggregazione vuoi ottenere in questo modo? Vuoi servi sottoposti a un’obbedienza immobile?».

LA DIREZIONE RISIEDE risiede nell’Ufficio Ambiente della Circoscrizione 6, di cui Grazia Bernardini è la segretaria: lo sguardo onesto di chi insegue il progresso civile, opposto alla genuina dignità di un contadino operaio. «Io non la penso come Pasquale», dice Grazia. «Le regole devono essere rispettate, altrimenti un’iniziativa civica perde di senso e di efficacia. Le amministrazioni, a partire dallo stato di abbandono in cui l’Arrivore versava nel 2007, hanno creato una comunità attiva al posto di una giungla assediata dal deserto sociale. Dal 2014 esiste un regolamento comunale cui attenersi. Nelle graduatorie è favorito chi ha un reddito inferiore ai 14 mila euro di Isee; il rinnovo avviene ogni cinque anni, il prossimo nel 2020».
Ciascuno dei 174 appezzamenti si estende per 100 metri quadrati. Un orto su cinque deve essere concesso «di prossimità»: con 200 euro l’anno, quattro persone possono condividere un lotto. «L’idea è quella di favorire i giovani e le associazioni», chiarisce Grazia.

Donato, invece, è soddisfatto. «Abbiamo pagato 50 euro di cauzione e altrettanti di canone annuo e ottenuto una concessione quinquennale. Periodicamente si controlla che lavoriamo il suolo, e lo trovo giusto, così come l’ordine di non coprire con una tettoia l’orto per non togliere luce ai vicini». La coppia chiede a volte consigli ai vicini, ma preferisce informarsi su internet: il senso di comunità non decolla. «Sul web ci sono meno invidie», dice Dorina. Ci parlano dei furti di zappe, rastrelli, cipolle. Prima si dava la colpa ai nomadi, ma è evidente che i responsabili siano gli stessi ortolani.

NEL LOTTO 89 INCONTRIAMO FRANCO CASSOLA, tra i pochi piemontesi. Nel 1944 la sua famiglia fu sfollata a Piossasco, dove si potevano coltivare pomodori e patate. «I figli dei contadini mi chiamavano il torinese che mangia mosche»: non riesce a dimenticarlo. «Si presentavano con un panino ripieno di marmellata, che avrei ottenuto se avessi ingoiato una mosca. Per la fame, lo facevo: quando lo capirono, smisero. A 75 anni ho preso un orto all’Arrivore. Guardando la foto di Piossasco con me bambino, che ho appeso sul cancelletto, penso: in fondo quella triste infanzia nascondeva un seme, che qui è maturato».

Nel 2008 Franco e il vicino Antonio Ciaccia, lui sì prodigo di consigli, hanno filtrato il terreno per ripulirlo da sassi, siringhe, gramigna. «Era duro come il cemento armato», dice Antonio, che ha trasferito nel suo appezzamento l’ordine acquisito in fabbrica. Antonio è arrivato ventiseienne da Faggiano, nel Tarantino: ha iniziato da verniciatore, è andato in pensione rifinendo le Ferrari. «I Comuni devono investire fondi europei per recuperare dall’incuria spazi incolti e affidarli ai disoccupati, perché chi perde il lavoro a cinquant’anni, se non facesse nulla, impazzirebbe».

Nel suo orto l’estetica ha un ruolo primario, con il trionfo dei colori e dei profumi pugliesi; pomodori San Marzano, neri, e cuore di bue; peperoni corno rosso; melanzane. «Mia moglie, con questi prodotti, ama preparare due piatti tarantini: melanzane ripiene «della qualità ovale» e purea di zucchine lesse con fave secche», dice sorridendo.

TRA TANTI UOMINI DURI, depositari di un sapere della fatica in via di estinzione, prova a destreggiarsi Valentina Ciappina, giovane coordinatrice della Commissione Ambiente della sesta Circoscrizione. «Di notte, negli orti, vengono ancora le prostitute», denuncia. «Per migliorare l’immagine dell’area, ho preteso fossero tolti i tappeti e ottenuto l’installazione di bidoni per l’immondizia. La speranza è quella di ringiovanire l’età degli ortolani, che durante le riunioni litigano come in un’assemblea condominiale».

Il regolamento prevede la consulta di un organo collegiale: un comitato elettivo composto da cinque persone, che si incontrano per discutere con l’ufficio tecnico. Spesso si segnalano comportamenti scorretti. Al terzo richiamo, chi trasgredisce dovrebbe essere espulso. Ciò non è mai successo. Non si potrebbero, per esempio, accendere i fuochi per le grigliate, ma chi è che non l’ha mai fatto?

Il recupero di un dialogo costruttivo con la natura, nonostante le beghe politiche, rappresenta per Torino l’anno zero di una narrazione delle periferie aggiornata alla contemporaneità. Eppure, tra Barriera di Milano e Falchera, tale dialogo, restando appannaggio degli anziani, sa più di nostalgia che di speranza. È il pianto antico di una generazione sconfitta, che però pare ancora l’unica capace di fare aggregazione, trasudando orgoglio e lucidità sociale.

RETTIFICA

Per errore, la fotografia che corredava il reportage in edicola sugli orti urbani di Torino, pubblicato sul gambero verde di ieri, è stata attribuita a Federico Gurgone. L’autore è invece il fotoreporter torinese Stefano Stranges. Ce ne scusiamo con entrambi.