L’inaugurazione è affidata a Suffragette di Sarah Gavron, cinema inglese di attrici (nel cast Carey Mulligan, Helena Bonham Carter), gusto retrò leziosetto, sceneggiatura illustrata (uscirà in sala nel marzo del prossimo anno). A scompigliare il bon ton inglese c’è però nel cartellone del Torino Film Festival ormai non più giovane – questa è la edizione numero 33 – che si apre il prossimo 20 novembre (fino al 28) l’omaggio a Terence Davies regista perturbante a cui verrà consegnato il Gran Premio Torino, con la presentazione del suo nuovo fim, Sunset Song, ispirato al romanzo di Lewis Grasic. Mentre a Julien Temple è stato affidata una «carte blanche» che sorprende il suo passato punk.

TFF dunque nella città sabauda forte di un ’sistema cinema’ saldamente supportato dalle istituzioni politiche locali e da quelle nazionali (il budget della rassegna è di 2 milioni e 400 mila euro) sotto l’egida del Museo del cinema diretto da Alberto Barbera (appena confermato per un anno alla guida della Mostra di Venezia) che ha reso il festival uno degli appuntamenti di riferimento nel panorama nazionale. Forse l’effervescenza irriverente dei suoi esordi, quei lontani ormai anni Novanta è andata perduta ma questo sembra essere un destino obbligato in Italia per i festival.

In concorso quattro film italiani, un esordio a quattro mani, I racconti dell’orso di Samuele Sestieri e Olmo Amati, quasi una fiaba fantasy, finanziata col crowdfunding, e tre nomi piuttosto consolidati almeno nel terreno fertile delle produzioni indipendenti. Parliamo di Mario Balsamo, che oltre a dirigere film è l’insegnante di riferimento per almeno la metà dei futuri aspiranti registi nostrani, in gara con Mia madre fa l’attrice. Un ritorno, dopo il premio a Noi non siamo come James Bond (tre anni fa) di nuovo con una storia intima e molto personale. Il film è infatti il ritratto della mamma di Balsamo, Silvana Stefanini, attrice per un breve periodo negli anni Cinquanta, e insieme il racconto del loro rapporto che prende vita nella rievocazione di questa esperienza.

Salvo Cuccia firma Lo scambio, un giallo nella Palermo degli anni Novanta tra un omicidio in strada e il rapimento di un bambino. E infine Colpa di comunismo di Elisabetta Sgarbi, tre storie al femminile per la regista e editrice milanese, con una filmografia anche lei molto nutrita, in cui si intrecciano i vissuti di tre donne rumene emigrate in Italia.

Ancora in concorso un titolo che è stato un successo nei festival internazionali di quest’anno (ha esordito a Vision du Reel di Nyon) Coma di Sara Fattahi, un interno familiare a Damasco nel quotidiano della Siria devastata dalla guerra. Ma soprattutto va segnalato John From di Joao Nicolau, talento del cinema portoghese di cui sembra avere assimilato le sinergie più eccentriche, e il gusto di mescolare con sapienza fantastico e realtà. Il film racconta l’ossessione amorosa di una ragazzina per il suo vicino, un giovane fotografo, comica, eccessiva, allucinata.

Nella sezione dei doc, internazionali e italiani, quasi un festival a sé, titolo di punta è Dans ma tete un rond point, di un giovane regista algerino, Hassen Ferhani, che senza retorica da «pornomiseria» ma con sublime poetica formale mette in scena personaggi che raccontano la nostra realtà. Migrazioni, desideri di un altrove, il sogno di un futuro. Tra gli italiani Dustur di Marco Santarelli la scommessa di scrivere una costituzione mettendo a confronto religioni, cattolicesimo e islam, e un’educazione diversa. Un percorso che comporta una riflessione molto lucida sul senso dello stato, della responsabilità individuale e sulla parola della democrazia.