Biciclette, carrelli, ferraglia, materassi, suppellettili, termosifoni: tutto ammassato in un piccolo magazzino. E’ il tesoro dei profughi che rovistano nei bidoni dell’immondizia torinesi, raccolgono e ridanno vita a tutto ciò che può essere rivendibile. Una piccola bomba, o un grande petardo, è stato gettata dentro questo magazzino della disperazione, marchiando il muro con l’impronta di una fiammata.

Da oltre tre anni quattro palazzine che furono parte del villaggio olimpico di Torino 2006 sono occupate da più di mille tra profughi, migranti, disperati di ogni nazionalità, clochard che cercano un posto. Lontano dal centro sfavillante, dove un tempo pulsava un cuore de duro lavoro notturno torinese, per decenni qui sono stati operativi i mercati generali ortofrutticoli, oggi sopravvivono in un ordine caotico i rifiutati della società. Un mondo che regge nonostante tutto, perché l’assenza delle istituzioni è compensata dalla buona volontà dei centri sociali che spaccarono i lucchetti dei palazzi abbandonati, e dall’innegabile tolleranza di un quartiere popolare che, però, comincia a manifestare profonda frustrazione.

Se non fosse per la grave intimidazione dell’altra sera, probabilmente successiva ad un scontro verbale tra italiani e migranti degenerato in rissa qualche ora prima, l’ex villaggio olimpico ed ex mercato generale potrebbe essere considerato un caso unico di convivenza. Certo non mancavano le tensioni, nonché gli atti di criminalità. Ma nessuno si aspettava una bomba carta lanciata verso chi dormiva, alla cieca.

Una detonazione violentissima, sentita in tutta la città. Dopo l’esplosione centinaia di uomini e donne sono scesi in strada: urlavano “italiani razzisti”, e molti imprecavano. Un muro umano è giunto a un passo dallo scontro con le forze dell’ordine giunte sul posto a placare gli animi. La fiammata di violenza giunge dopo che la sindaca Chiara Appendino aveva anticipato che si stava andando verso uno sgombero delle palazzine, da organizzare con la collaborazione della fondazione bancaria “Compagnia di San Paolo”, primo azionista di Intesa Sanpaolo.

Il piano organizzato dal comune e dalla fondazione bancaria prevede due momenti: il censimento su base volontaria iniziale, dopo di che si dovrebbe passare al ricollocamento degli occupanti. Progetto ambizioso anche se privo al momento di una reale progettualità per la fase più complessa dell’operazione, il ricollocamento.

In questo contesto giunge l’attacco di ieri sera.

“Alcuni fascisti vogliono mandarci via. Nel quartiere cerchiamo di non dare fastidio, ma siamo tanti e non possiamo essere invisibili. Ci dispiace e capiamo la difficoltà di chi vive qua vicino, ma noi cosa possiamo fare?”. Queste le parole di Mohamed, arrivato in Italia dal Sudan su un barcone. La sua storia è uguale a quella degli altri mille che qui vivono, e che non hanno più paura di nulla né nulla da perdere.

Urlano sotto la pioggia battente le loro storie di schiavitù e guerra, mentre gli italiani guardano dalle finestre e aspettano che ritorni la calma. La destra cittadina urla sguaiatamente, gli altri cercano fondi per uno sgombero. Poco distante, vicino al bar dove vi sarebbe stata la rissa poi degenerata, alcuni ragazzi confabulano sui “negri che devono andarsene”.