La navigazione a vista continua. Mentre David Cameron è a Bruxelles per una serie d’incontri dove non riuscirà a guardare in faccia nessuno di quegli stessi interlocutori messi in croce quattro mesi prima per ottenere le famose, inutili negoziazioni sulla permanenza del paese nell’Ue, il neosindaco Sadiq Khan ha fatto la sua prima uscita pubblica dall’armageddon del 24 mattina. Davanti a vari business leader, il primo cittadino di Londra ha detto di non sognare una Londra indipendente e che ora la priorità è restare nel mercato comune. Ha poi fatto un utile intervento nel deplorevole dibattito sulla legittimità di chiamare a esprimersi di quello che in Italia sospettabili giornalisti liberal chiamano «popolino»: «Non date la colpa alla campagna referendaria, il popolo sapeva cosa ha scelto», ha detto Khan. La priorità assoluta ora è quella di restare nel mercato unico, ha aggiunto. Sui suoi colleghi deputati aizzati contro il leader Corbyn nella guerra per il controllo del partito, ha scelto, ovviamente, di non pronunciarsi.

Nicola Sturgeon ha parlato al parlamento scozzese e ha ripetuto quello che dice da tre giorni, cioè che farà di tutto perché la Scozia resti nell’Ue, mentre il rappresentante del Snp a Bruxelles riceveva una standing ovation dall’aula, uguale e contraria al gelo con cui questa accoglieva il grossolano intervento di Nigel Farage.

Nel frattempo, i due maggiori partiti, con due leader ormai privi di autorità, corrono a destra e a sinistra alla ricerca di un nuovo segretario capace di sanare le profonde fratture evidenziate dal voto referendario, ciascuno a modo proprio.

I Tories si contano e si confrontano attraverso i soliti incontri informali, tra i velluti dei members e le sdraio dei country club. Boris Johnson, che ha deliberatamente scelto il cavallo del Leave come scorciatoia verso il 10 di Downing Street, è un caso esemplare. È un tale opportunista da far inorridire alcuni dei suoi stessi colleghi, che gli propongono Theresa May come antidoto. Ma ci sono anche altri nomi, come il ministro dell’istruzione Nicky Morgan, quello del lavoro Stephen Crabb e quello della sanità Jeremy Hunt, che è anche propugnatore di un secondo referendum su come uscire dall’Ue che non mancherà di riscuotere molto plauso a Bruxelles, oltre che nella fazione del leave.

George Osborne, il ministro dell’economia, era il numero due di Cameron ed erede apparente in una staffetta che lo avrebbe visto succedergli se la volontà popolare non ci avesse messo lo zampino. Dopo i suoi vaticini di orribile sventura sulle sorti dell’economia, e il famoso budget di emergenza per il quale non c’è stata nessuna emergenza, ormai è «damaged goods» come si dice da queste parti: politicamente intoccabile.

Questo non gli ha impedito, pur chiamandosi fuori dalla corsa alla leadership, di presentarsi come il garante della stabilità in mezzo alle procelle economiche provocate più o meno involontariamente dal suo stesso leader, parlando ripetutamente di realismo e rassicurazione. Senza lasciarsi sfuggire naturalmente l’occasione di annunciare altri tagli e un aumento delle tasse per far fronte al contraccolpo dell’uscita dall’Ue, giustificati con il fatto che «la vita fuori dall’Ue non sarà altrettanto facile di quella dentro l’Ue».

Un contraccolpo, quello all’economia, finora meno nefasto del temuto e tuttavia assai concreto. La sterlina più debole significa maggiori esportazioni ma ridotte importazioni e soprattutto un calo degli investimenti, oltre a un inevitabile aumento del prezzo di carburante e combustibili. Ciononostante, la mattinata borsistica di ieri è stata più tranquilla, con il pound in leggero recupero.