L’eccesso di entusiasmo che ha invaso la città per l’annuncio della realizzazione del nuovo stadio della Roma calcio ha contagiato anche il sindaco Marino. Era forse più prudente il ricorso alla sobrietà, perché ad analizzare la vicenda emergono giganteschi motivi di perplessità. Iniziamo dall’incipit. Era stato Gianni Dragoni (Sole24Ore del 20 aprile 2012) a riportare la notizia che la Roma aveva incaricato la Cushman & Wakefield, una delle società immobiliari più grandi nel mondo, di trovare il luogo più adatto per costruire il nuovo stadio. Un fatto inedito nel panorama nazionale. E’ solitamente la proprietà fondiaria che crea lobby per rendere edificabili i terreni di proprietà. Oggi il dominio degli istituti finanziari è sempre più totalizzante e ad esempio la Roma calcio ha un rilevante debito con Unicredit. Nell’eterna valorizzazione fondiaria entra dunque in gioco un altro attore: l’intermediario immobiliare e finanziario. Non va infatti dimenticato che la C.& W. è posseduta da Exor, la finanziaria della famiglia Agnelli.

Dal cilindro dell’immobiliare esce l’area di Tor di Valle, un lembo di terra marginale e senza infrastrutture di collegamento. Viene insomma proposta l’ennesima aggiunta ad una città già troppo grande, in aperta contraddizione con il programma elettorale che prevedeva il recupero delle periferie esistenti. Così, viene messa in moto la macchina della retorica: afferma il sindaco Marino che «il nuovo stadio non costerà un euro alla città perché i 700 milioni per creare le infrastrutture sono tutti privati». E’ una bugia, perché almeno la metà di quella cifra è costituita da oneri di urbanizzazione dovuti per legge che il comune potrebbe spendere per costruire servizi in ogni altro quadrante urbano.

Ma veniamo alle opere infrastrutturali che lo stadio richiede. L’area di Tor di Valle è un piccolo deserto urbano: non ha quartieri al suo intorno e non è dotata di infrastrutture. I 700 milioni serviranno per costruire nuovi svincoli sull’autostrada per Fiumicino, un nuovo ponte sul Tevere e un nuova linea di trasporto su ferro che oltre a servire lo stadio, collegherà la nuova fiera di Roma e l’aeroporto di Fiumicino.

La nuova fiera di Roma è un ulteriore caso del disastro romano. Venne infatti realizzata negli anni scorsi in un’area isolata e senza qualità, molto simile all’area del nuovo stadio. Anche per questo ha accumulato un buco di bilancio gigantesco e, ancora una volta, Unicredit è la principale creditrice della Investimenti, la holding che controlla la fiera. Nel luglio 2012 l’allora sindaco Alemanno influì fortemente per la creazione di una società paritaria tra l’Ente Eur del suo fedelissimo Riccardo Mancini e la Fiera di Roma per potenziare il polo congressuale e fieristico. Da quel momento potenti lobby hanno iniziato a porre la questione del collegamento su ferro tra l’Eur e la fiera, un’ipotesi semplicemente offensiva verso l’intera città che non ha metropolitane e tramvie e affonda quotidianamente in un traffico disumano. Il sogno di Alemanno, Mancini e Unicredit rischia di avverarsi con Ignazio Marino e la città getterà al vento altri 700 milioni per opere senza alcuna ricaduta sociale ed economica. Una cifra enorme che si sommerà ai 22 miliardi di euro (a cui vanno aggiunti gli 800 milioni del debito corrente del 2013) persi a causa dell’urbanistica scellerata romana.

Di fronte a questo quadro, il sindaco Marino deve pretendere una pausa di riflessione: lo stadio può ancora diventare una buona occasione di riscatto perché le opere pubbliche da realizzare possono portare riqualificazione nella desolata periferia romana ed aiutarne l’evoluzione sociale. Ci sono tanti luoghi che potrebbero ospitare il nuovo stadio della Roma (e quello futuro della Lazio), ma devono essere gli uffici pubblici ad individuarlo insieme ai comitati dei cittadini che hanno contribuito all’elezione di Marino, mica Cushman & Wakefield. Si tratta soltanto di prendere il progetto elaborato e localizzarlo dove porterà benefici per una parte della periferia romana. Si prende ad esempio a modello quanto avviene in Gran Bretagna dove gli stadi delle più famose società calcistiche sono stati realizzati nel cuore delle città e non nel deserto.