Topper Headon, la batteria umana
Maggio 1982, un mese cruciale nella vita dell’ex drummer dei Clash. Il mese più glorioso, il più impietoso
Maggio 1982, un mese cruciale nella vita dell’ex drummer dei Clash. Il mese più glorioso, il più impietoso
È stato un mese particolare quel maggio 1982 per Topper Headon, funambolico, stupendo batterista dei Clash. Il 30 maggio compì 27 anni, il 14 maggio uscì Combat Rock l’album che decretò il successo commerciale della band, grazie soprattutto all’irresistibile groove di Rock the Casbah che scalò le classifiche e che era, a livello compositivo, in gran parte farina del sacco di Topper. Il 10 maggio fu buttato fuori dal gruppo. «Ero in uno stato pietoso. Quando ti fai di eroina non hai nessun rispetto per te stesso e per gli altri. Avevo perso ogni contatto con la band, la realtà, il mondo intero. Joe mi ha detto: “Sei licenziato”. Ho saputo solo dire: “Stai scherzando!”. Non ho saputo dire altro».
Topper Headon è stato il batterista dei Clash, l’«unica band che conta». E già sarebbe sufficiente per consegnarlo alla storia. Era chiamato «The human drum machine», «La batteria elettronica umana» per la sua incredibile precisione. Incominciò a suonare la batteria a 13 anni dopo che la rottura di una gamba spezzò le sue ambizioni di calciatore e un medico gli consigliò di suonare uno strumento per sedare la frustrazione per l’interruzione dell’ambita carriera su un campo d’erba. «Non ho mai preso lezioni. Ho iniziato a suonare e mi sono accorto che lo sapevo fare». Dopo sei mesi era già batterista di un gruppo jazz. Incontrò a Londra il chitarrista Mick Jones che cercava un batterista per un nuovo gruppo che stava compiendo i primi incerti passi nella scena punk. Non esitò ad accettare il posto nei Clash per 25 sterline a settimana. Fu rivestito a puntino in stile punk e iniziò con la domanda ricorrente: «Starò facendo la cosa giusta? Ero nel gruppo da una settimana, dovevo negare di essere sposato, ero molto intimidito, dovevo lasciare perdere il mio giro e entrare nella gang». Si ritrovò in un gruppo punk, lui che ha sempre ammirato i migliori batteristi jazz e non ha mai nutrito particolare stima per i colleghi del nuovo giro. La sua vita diventò un circolo ininterrotto di prove, concerti, studio di registrazione, i Clash arrivarono in pochissimo tempo ad essere uno dei gruppi più amati e seguiti in tutto il mondo, un simbolo, con un ruolo identitario, in cui riconoscersi per migliaia di giovani.
IPERATTIVO
«Ero al massimo della forma, non facevo mai un errore, tutto quello che facevo era suonare, suonare, suonare. Poi in tour scoprii l’alcool e allora tutto quello che incominciai a fare fu bere, bere, bere. Poi Mick mi introdusse alla cocaina e tutto diventò coca, coca, coca». Topper amava i Clash, il mondo che li circondava, andare in tour, registrare ma mentre gli altri erano in grado di prendersi una pausa, lui non riusciva a fermarsi, iperattivo oltre ogni limite, anche quello dell’autodistruzione.
«Arrivai a prenderla di continuo anche durante i concerti, ogni tre canzoni. Quando si spegnevano le luci il mio roadie era pronto con uno specchio e qualche linea di coca».
Non che i suoi compagni di palco fossero particolarmente morigerati, tanto meno i roadie e la crew ma sapevano in qualche modo autogestirsi.
«Il problema era che una sera mi ubriacavo con Joe, l’altra con Paul, l’altra ancora con Mick, ci si divertiva in continuazione. Ma non mi accorgevo che ero il solo che lo faceva costantemente». L’eroina arrivò conseguentemente e Topper, con la consueta costanza, ci si dedicò totalmente, diventando talmente incontrollabile e autodistruttivo, che gli altri della band chiedevano negli hotel una camera in piani differenti da quello del batterista. Joe Strummer, esasperato da una situazione sempre più incontrollabile e nonostante lo avesse protetto e difeso in ogni modo, decise di concedergli un’ultima chance. «Non sapevo di essere controllato. Nei camerini ad Amsterdam strappai uno specchio dalla parete e ci tirai una lunga striscia di coca».
Gli altri tre si guardarono silenziosamente e poco dopo Joe disse ad un giornalista che Topper era licenziato. «Joe non mi avrebbe mai buttato fuori dal gruppo se non fossi stato un tossico all’ultimo stadio, che devastava gli alberghi ed era sempre in ritardo alle prove».
Qualche mese dopo essere stato in una delle più grandi rock band del mondo, Topper si ritrovò in una gelida casa occupata senza finestre a Fulham, mentre i Clash giravano gli Stati Uniti sull’onda del successo di Rock the Casbah, lo stesso che Topper aveva concepito, suonato in pratica interamente e registrato da solo.
OPPORTUNITÀ MANCATA
Pete Townshend gli offrì l’opportunità di suonare con gli Who che avevano scelto proprio i Clash come gruppo di apertura del loro tour. Una rivincita epocale per chi era appena stato licenziato. Ma Topper decise che, poco prima delle prove, fatto e strafatto, fosse più divertente saltare da un tetto all’altro. Da dove cadde e si ruppe una gamba, facendo sfumare l’incredibile opportunità. Appena guarito formò una band con Pete Farndon, anche lui appena licenziato dai Pretenders per dipendenza da eroina, prodotto da Rob Stoner (altro tossico) della band di Bob Dylan e Pete Townshend. Facile intuire come potesse andare a finire. Farndon morì poco dopo e il gruppo si sfasciò. Qualche tempo dopo anche Mick Jones fu licenziato da Joe Strummer e andò così a cercare Topper per farlo entrare nel suo nuovo progetto Big Audio Dynamite portandogli anche la buona notizia che avrebbe avuto 200mila sterline (l’equivalente odierno di 750mila) di buona uscita. «Chi vuole ripulirsi con 200mila sterline in banca? Salutai Mick, ci vediamo!». In 18 mesi i soldi finirono e non gli rimase più neanche un mobile in casa. Fece uscire il pur ottimo, ma ignorato da critica e pubblico, album solista Waking up, nel 1986, venne arrestato (15 mesi di prigione), finì in un ricovero per persone senza casa. Tornò nella natìa Dover dove finì per girare i pub e uscire barcollante urlando alle auto per strada, contrarre l’epatite C, tornare all’eroina. Si ridusse a suonare i bongo nella metropolitana di Londra: «Ogni cento persone che passavano una mi chiedeva: “Ma tu sei Topper dei Clash?” Rispondevo: “Sì questo è ciò che faccio adesso”. Davvero umiliante».
Lavorò a fasi alterne come taxista, senza più alcun interesse per la musica, tentò la disintossicazione per 13 volte. La quattordicesima funzionò. «Non so perché, qualcosa è successo, mi sentii di nuovo parte della vita. Da allora sono rimasto pulito». Fondò l’Anonima Narcotici di Dover, si occupò della prevenzione dell’epatite C, ogni tanto suona qualcosa, ospite di qualche gruppo nei pub della città, è apparso anche con Mick Jones nei Carbon/Silicon per un paio di brani dei Clash. Ricorda che Strummer non era contento di come erano finiti i Clash, a suonare nei grandi stadi, l’antitesi di quello che avrebbero dovuto essere. «Finì con licenziare tutti, invece di andarsene lui. Con me non aveva scelta. Ma eravamo ragazzi».
Joe Strummer ammise: «Non abbiamo più suonato un buon concerto dopo l’uscita di Topper». Topper: «È stata la cosa migliore che poteva succedere, abbiamo fatto musica fantastica, meglio finire al top. Anche se le rockstar sono come i cattolici. Possono anche smettere ma rimarranno sempre rockstar». Ora Topper vive più o meno serenamente, segue una dieta salutista, non suona più se non occasionalmente per divertimento, non ascolta musica, ha vari problemi fisici, dice di aver comunque perso la forma e buona parte della tecnica. «Sono un uomo di mezza età che vive vicino al mare». Il suo impegno principale è tenere lontano i fantasmi. «Ho perdonato Joe. Dovevo essere io a morire, non lui».
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