Non da oggi la cultura architettonica occidentale si misura con la sua perdita di legittimità e con la sua modesta capacità di incidere e semmai risolvere i problemi della città. Le ragioni sono molteplici e note: riguardano il mestiere dell’architetto, ma anche come questo si racconta e si spiega la sua attività. Già Ignasi de Solà-Morales ne dette una giusta spiegazione: «Una grandissima parte dell’architettura che si costruisce e una parte non trascurabile di quella che si insegna si basano su cliché che non si discutono più, e su decisione estetiche ed etiche che vengono assunte senza revisioni critiche di alcun genere». Manfredo Tafuri fu ancor più radicale considerando il linguaggio culturale dell’architettura un’«attività residuale».

C’è chi, però, intorno alle questioni del narrare l’architettura e sulle ragioni profonde del loro mutamento epistemologico non si arrende e si interroga su come la storia – o la «storia critica» – sia necessaria e «utile» per l’architettura. Carlo Olmo è tra questi e nel suo ultimo saggio dal titolo Architettura e storia. Paradigmi della discontinuità (Donzelli, pp.180, euro 29,00) si fa carico di insistere in modo «aspro e meditativo» sull’importanza di scrivere di architettura soprattutto in una fase quale quella attuale, in cui si «opacizzano» troppe «parole chiave».

Intrecci di storie

Lo storico torinese riprende in parte i temi affrontati nel precedente saggio Architettura e Novecento (Donzelli, 2010); ma in questo ultimo le sue analisi si concentrano maggiormente sui dispositivi, spesso apparati retorici o simbolici, ai quali la storiografia di architettura ricorre soprattutto in età moderna.

Olmo ne illustra alcuni fondamentali per mezzo del sintagma – con riferimento alla semiotica di Barthes – quali ad esempio: testimonianza-verità, città-democrazia, narrazione-testo, genealogia-discontinuità. La finalità è quella di rintracciare nel tempo il cambiamento di significato di queste parole e far comprendere come «pregiudizi, privilegi e aporie che forse vale la pena mettere in discussione», hanno avuto vita sull’eccessiva considerazione dell’aspetto «parlante» dell’opera architettonica.

Da sempre, infatti, per Olmo l’architettura non è «riducibile» al suo linguaggio, alla sola sua dimensione, pur irremovibile, dell’arte. Il suo significato e valore si trovano spesso altrove, nello stratificarsi di situazioni quali il contesto, le committenze, le professioni, i codici e le norme, ai quali lo storico non può essere indifferente. Il rischio che si corre a non tenerne conto è l’impoverimento della storia dell’architettura e la conseguenza quella che semplificare le fonti – perché a volte troppe, in più luoghi e stratificate negli anni – porti alla «riduzione della complessità».

Occorre aggiungere che purtroppo l’«unicità» fisica dell’opera architettonica nella sua natura di «documento», ha fatto dimenticare spesso le altre «storie» che la compongono e l’intreccio delle sue «eccezioni». Rientrano tra le eccezioni, ad esempio, l’«anacronismo» e l’«alterità» che rendono l’architettura qualcosa «altro da sé» in quanto sempre «il riposante linguaggio dei tipi, degli stili, delle ricorrenze riesce a nascondere l’alterità». Per sostenere le sue tesi, Olmo fa riferimento a una vastissima bibliografia, solo in parte riferita alle tradizioni storiografiche (Bloch, de Certeau) che richiede al lettore un serio impegno e attenzione. Il saggio, infatti, si dà come un «esercizio epistemologico della complessità» che in ogni capitolo ci fa scoprire i «tanti recinti in cui la storiografia architettonica vive e, forse, prospera».

La prova di questa complessità risalta nel richiamo ad una serie di luoghi emblematici che rilevano lo straordinario intreccio dei temi economici, giuridici e culturali che accerchiano l’architettura: dai passages e galèries parigini di Benjamin, uno spazio denso di immagini e figure come saprà restituire solo la ricerca sulla memoria collettiva di Maurice Halbwachs, alla Mezquita di Cordóba, un’architettura sacra, «contesa» e ogni volta ricostruita servendosi dell’oblio per legittimare ogni sua nuova trasformazione. Per Olmo anche la storiografia urbana è capace di restituirci una «produzione sociale di senso» se adeguatamente ricercate e interpretate le sue fonti. L’esempio è dato dalle vicende della città riformata. Nella Torino di Carlo Emanuele III e di Benedetto Alfieri, come nella Lisbona post terremoto di Manuel da Maia, il riformismo illuminato si comprende bene dai decreti e atti che concedono aperture alla proprietà individuale: promotori immobiliari e architetti.

Tracce estetizzanti

Sulla catastrofe-ricostruzione della capitale portoghese scrisse anche Voltaire cogliendo lo spunto per una riflessione critica sul legame tra «azioni umane», eventi e destino. Olmo ne cita l’episodio solo per ricordarci che qualsiasi archivio o fonte rimanda alle «azioni, molto più che a cose». Inoltre che «la deriva estetizzante per la storia dell’architettura nasce da un immaginario svalutato che si fonda sulla persistenza e ripetitività delle immagini» misconoscendo «attori, processi e prodotti, ma anche culture giuridiche stratificate in secoli» nella storia delle città capitali europee. Una delle parole più ricorrenti nel saggio oltre a «documento» è «testimonianza». Lo storico torinese ne riassume le questioni esegetiche che la riguardano – dal Talmud alla Bibbia – intorno al Tempio di Gerusalemme, proseguendo con il dibattito sul tema della memoria che a Berlino come a New York ha riguardato la musealizzazione della «Topografia del terrore» – dai campi di lavoro forzati del Terzo Reich al muro della Ddr – e la ricostruzione delle Twin Tower dopo l’11 settembre.

Tra valori relativi o universalistici il significato della testimonianza in architettura, spiega Olmo, si sviluppa nel corso almeno degli ultimi due secoli – da Lessing fino a Ricœur – intorno al problema della sua interpretazione: il «valore di testimonianza è terreno di scontro, che sia un muro, un isolato o un paesaggio urbano, anche solo una pietra». Ora l’architettura in quanto testimonianza – sinonimo di memoria o di semplice racconto di un fatto – si trova continuamente divisa tra l’essere «produttrice di un immaginario che arricchisce continuamente di significati».

Ancora una volta, quindi, lo storico si muove tra le insidie che nascondono alcune parole ricorrenti tanto che l’autore considera etico un maggiore uso dell’«esercizio filologico». Per Olmo, infatti, solo nella maggiore attenzione al loro uso e al loro significato la storia dell’architettura potrà risollevarsi dalla modesta considerazione che vive oggi.