Quasi a metà del suo intervento in occasione del ritiro del Premio Nobel, letto da Mohamed Salmawy all’Accademia di Svezia nel 1988, il padre riconosciuto del romanzo arabo Naguib Mahfouz (1911-2006) disse che gli europei avrebbero potuto chiedersi: «Quest’uomo che viene dal terzo mondo, come è riuscito a trovare una qualche pace della mente per scrivere storie?».
È un commento che mi ha sempre colpito, non perché implichi che, per assurdo, nessuno da un paese del terzo mondo possa avere pace o cervello sufficiente per la letteratura, ma perché questo assunto di privazione o mancanza, della scrittura come qualcosa sopra e al di là della vita e del lavoro ordinari, sembra sottolineare l’auto-rappresentazione collettiva dei romanzieri egiziani. E in particolare ora che l’Egitto sta sopravvivendo a fatica al collasso delle istituzioni e al conflitto civile – qualcosa che nonostante guerra, cambio di regime, e il nuovo millennio, non è mai accaduta nella vita lunga 94 anni di Mahfouz – come uomo che vive al Cairo e scrive romanzi in arabo, è un’idea che tutti si aspettano che io debba avere di me stesso.
Non che Mahfouz sia colpevole di questo, ma l’immagine che gli scrittori egiziani hanno di loro stessi è sufficiente a distruggere ogni testo basato sulla vita reale, anche se le idee che contiene sono interamente fittizie: il bisogno di rappresentare la nazione (spesso più Araba o Islamica rispetto a una nazione egiziana), il privilegio di parlare per e/o al popolo, l’abilità di tessere una narrativa ideologica in un qualche resoconto storico…Temi ossessivi che caratterizzano la cospirazione (post) coloniale del far cadere la patria, la questione palestinese, la gloria dei contadini e l’immoralità dei governi. E, oltre all’avversione morbosa verso l’artificio, quando queste tematiche sono state combinate con lo zeitgeist stilistico che ha prevalso sin dagli anni Sessanta – la preferenza per la forza poetica che fiorisce su quella narrativa, attenzione eccessiva alla lingua a spese del contenuto, pigrizia che passa per economia dei mezzi, mancanza strutturale e fattuale di rigore – hanno finito per privare il romanzo arabo dei suoi lettori in patria (a confronto, per esempio, con libri religiosi e consigli sessuali, analisi politiche o biografie scandalose).

Villaggi patriottici

Tutto questo mi viene in mente quando leggo Mahfouz che dice: «Poiché vengo dal terzo mondo… la pace del cervello». Ma, invece del vero terzo mondo e delle difficoltà che potrebbe rappresentare per un romanziere serio – per chi scrivere, dove pubblicare, e con quali criteri misurare il successo – penso a un terzo mondo letterario inventato e mantenuto dagli scrittori egiziani da soli: un universo di mediocrità che si nutre della sua stessa irrilevanza, una democrazia dell’irrilevante. È un reame a cui categoricamente rifiuto di appartenere. Tuttavia è quello che potrei prendere dalla scrittura in arabo del passato recente o distante, combinandola con altre fonti, nel quadro del romanzo contemporaneo.
Si tratta di un villaggio pomposo e patriottico, a stento segnato sulle mappe spazio-temporali della civilizzazione umana, ma mentre ho a che fare con l’Egitto e con il genere letterario per il quale lavoro, non ho niente a che vedere con questo villaggio. La mia convinzione è che, piuttosto che un romanziere egiziano, sono un romanziere che è egiziano. È una differenza importante: invece della voce di ogni popolo o la coscienza di ogni nazione, vedo me stesso come qualcuno che – similmente ad altri sul pianeta e a differenza di molti in Egitto – cerca di dare un senso al mondo attraverso un conosciuto esercizio epistemologico chiamato romanzo; e non dovrebbe importare granché quale parte della terra conosca abbastanza da poterne scrivere. Questo esercizio, direi, è sempre stato multiculturale quando, con l’aiuto di traduttori e dell’industria editoriale, è diventato «globale» lungo linee parallele se non un tutt’uno con il fenomeno dei media, network sociali e popolari.
Amitav Ghosh, Milan Kundera, Haruki Murakami, Orhan Pamuk, Umberto Eco, Victor Pelevin e il defunto Roberto Bolaño: ogni scrittore, in una diversa lingua, usa come soggetto temi reali che accadono in parti diverse del mondo, ma posso leggere (e in teoria essere letto da) tutti e sette, grazie non tanto a questa globalizzazione, ma alla natura del lavoro in cui si sono impegnati e i linguaggi che, in altri idiomi, hanno condiviso.
Il romanzo può essere un tipo diverso di creatura in ogni caso, ma resta parte di una conversazione in corso che, sebbene se ne abbia notizia prima di tutto nella penisola iberica, da dove ha iniziato a diffondersi in Europa, ha finito per diventare – come l’automobile, il vestito su misura, o questo computer portatile – un oggetto contemporaneo. Lontano da ogni altra identità esclusiva o definita, la nazionalità del romanzo è contemporanea.
Non dovrei sottolineare che, anche nei Paesi più ricchi e stabili del mondo, i romanzieri seri spesso hanno difficoltà nel trovare la pace finanziaria per fare il loro lavoro.
Se l’idea che il vero terzo mondo non produce romanzieri è ipotizzata da un terzo mondo letterario in Egitto che si rifiuta di prendere parte al romanzo come un esercizio di epistemologia globale con il pretesto di una sua propria identità inferiore, deve quindi esserci un granello di verità in quello che Mahfouz diceva. Altrimenti, non mi avrebbe infastidito.

Fuori dal mito

Penso che il granello di verità sia la possibilità che essere del terzo mondo metta il romanziere di fronte a un problema ontologico, al di sopra e al di là delle difficoltà tecniche di pubblicazione, traduzione e, in particolare, trovare lettori: problemi che esistono allo stesso modo – forse in maniera significativamente inferiore, ma presente – in luoghi dove i nomi dei più conosciuti scrittori arabi erano ignoti nel 1988 e in cui apparentemente ha senso chiedersi con stupore come si sia arrivati al punto in cui gli esseri umani, con 1500 anni di tradizione letteraria alle spalle e che vivono nel mondo contemporaneo, non debbano mai avere un impulso per scrivere romanzi.
Penso alla parola «villaggio», con la quale ho descritto una comunità letteraria di cui non voglio fare parte: la condizione necessaria per il romanzo è una coscienza urbana. Mi sembra sia l’unica cosa che separi il romanzo dal creare miti, racconti popolari, o poemi in prosa sia la consapevolezza della città – ogni forma di agglomerato urbano dove ci si può perdere, un luogo grande e affollato di storia, con strade, crimine, commercio, e posti visitati, ma anche, in un certo senso, un luogo della coscienza contemporanea: una riservatezza – e uno spazio rispettoso dell’anonimato e dell’eccesso peripatetico, di etica (post) moderna e tedio – e, anche qualora avesse una configurazione provinciale e personaggi non consapevoli del modo di pensare urbano, anche quando i suoi scrittori vivono e lavorano in campagna, il romanzo è ancora un libro che emerge da questo tipo di luogo.
È una risposta all’esistenza della città, a cosa significhi un essere umano all’ombra di quella città, e un romanziere sa vedere come l’appartenenza alla città cambi le persone nel tempo.

Ordini urbani

Ha senso, quindi, che l’osservazione di Mahfouz debba ricordarmi che ciò che condivido con lui, la città del Cairo – anche se per tanti aspetti senz’altro una metropoli – spesso manca della coscienza contemporanea con cui le città dovrebbero racchiudere la loro vastità e perciò uno spazio in cui essi (gli scrittori, ndt) producono e consumano i romanzi. Spesso Il Cairo viene fuori come un villaggio gigante che manca un po’ dell’ordine e urbanità che fanno delle città quello che sono.
Realizzare romanzi da e sul Cairo richiede una certa estensione dell’immaginazione o almeno una riorganizzazione personale della storia immediata: ricordi dei tempi passati o di un futuro in cui Il Cairo potrebbe sembrare una città; aspetti eclettici della capitale che, ricombinati, riflettono l’immagine di una metropoli moderna; racconti di vita in piccole e più isolate comunità urbane (così fatte per virtù di classe, cultura o semplicemente per l’essere ribelle).
Potrebbe essere che la comunità letteraria del Cairo abbia un obiettivo, quindi, ma ideologicamente tormentato è il suo modo di crearlo. L’incubo della storia di cui parla James Joyce dal quale cerca di svegliarsi è particolarmente terrificante: lì, la modernità è andata essenzialmente male. Un’ampia parte della realtà del Cairo è pre-moderna; e l’incubo è, infatti, mancanza e privazione nel senso che il romanziere non può prendere questa realtà così com’è. Il vero romanziere, intendo – non il poeta che scrive in prosa o lo scrittore di biografie che si atteggia a romanziere – non può scrivere storie del Cairo. Forse, quello che voglio dire è che la capitale non è abbastanza «città» da produrre romanzi; perché non desidero mentire sul mio luogo di residenza, sebbene siano bugie fattuali che costruiscono la verità della finzione.
Forse, sono obbligato a guardare fuori dalla troppo provinciale vita del centro della città e cercare la mia Cairo nelle periferie mentali, morali, etiche e geografiche. Se visitaste mai l’Egitto, quindi, assicuratevi di cercarmi lì, dove siete certi di trovarmi con i miei romanzi.

*Scrittore e caporedattore della pagina culturale del settimanale egiziano Al Ahram weekly. Traduzione Giu. Acc.