Lewis Baltz è nato nel 1945. Appartiene a una generazione di artisti critici («teorici che svolgono anche una pratica artistica» scrisse Baltz stesso in un testo su Sekula del 1995) che non hanno mai parlato molto di sé, del proprio lavoro. Ora, in Italia, grazie all’editore Johan&Levi sono appena stati pubblicati i suoi Texts, raccolti nel 2013 e tradotti da Emilia Sala. Gli Scritti, titolo del volume curato da Antonello Frongia (insostituibile conoscitore dell’intera opera di Baltz, sua la postfazione), contribuiscono «alla conoscenza di un pensiero critico che Baltz, come altri autori (…), accomunati dall’etichetta ’topografica’, ha sviluppato per oltre quarant’anni in tandem con una pratica visiva basata sulle virtù dell’esattezza, del silenzio, dell’ermetismo».
I New Topographics, da principio, erano i dieci fotografi – Baltz uno di essi – invitati alla mostra di Rochester del 1975. Avevano in comune un’aspirazione «all’anonimità stilistica» e una tensione a «un preciso cambiamento non solo nella tradizione della rappresentazione del paesaggio, quanto nel modo in cui la fotografia rifletteva su se stessa». Tweenty-six Gasoline Stations (1962) di Edward Ruscha era l’antecedente più prossimo di questa nuova attitudine rappresentativa, per risalire a ritroso a Walker Evans, di cui i «new topographics» raccoglievano il testimone, l’eredità. Una fotografia che negli anni Settanta, in America, riprendeva l’interesse ottocentesco per il luogo, non più a testimonianza di ciò che stava per scomparire, bensì di ciò che sarebbe stato il futuro, divenuto presente contaminato.
Le riflessioni raccolte nel libro si collocano «all’interno di un ampio progetto di definizione dell’opera di Baltz avviato nel 2010 in collaborazione con l’editore Steidl», e presentano da prospettive differenti, attraverso narrazioni incorporate nei lavori testo-immagine della fine degli anni Ottanta, ventinove saggi critici (sette testi si trovano solo nell’edizione italiana e sono stati scritti da Baltz durante il periodo d’insegnamento presso l’università Iuav di Venezia) dedicati ad alcuni fotografi e artisti del Novecento: Walker Evans, Edward Weston, Robert Adams, Michael Schmidt, Allan Sekula, Thomas Ruff e Jeff Wall che – come scritto nella quarta di copertina – «in modi diversi interrogano le possibilità e i limiti delle pratiche fotografiche di stampo modernista» e ci ricordano che «la fotografia ereditò una porzione di pubblico americano intellettualmente troppo pigro per comprendere e tanto meno per provare interesse per il genere di questioni sollevate dalla migliore arte degli anni Settanta».
Nonostante Baltz mostri una disaffezione a temi e dibattiti ricorrenti della fotografia contemporanea – è sempre stato interessato agli autori che hanno saputo superare il limite che il mezzo loro impone in cambio di senso – uno dei saggi più significativi della raccolta è un’inestimabile escursione nella fotografia degli anni Settanta: Too Old to Rock, Too Young to Die. Nel 1988 Baltz risolse definitivamente il suo debito con l’eredità di Walker Evans e cominciò una nuova fase dove l’insieme dei frammenti visivi non è più il solo dispositivo. Del resto, per Baltz, la questione del «fare» immagini, non significava (e così continua a essere) instaurare un formalismo sottolineato da un segno estetico, ma offrire un’oggettivazione dello sguardo che definisse la metamorfosi dell’uomo nella società dei clienti, «il paesaggio come bene immobiliare. È la visione della natura che mi si presentò a Park City e quella che ho voluto mostrare nelle mie fotografie».
Baltz – tra tutti gli artisti che dagli anni Ottanta hanno costruito opere attraverso la fotografia – è quello che meglio dialoga con altri saperi, dall’arte alla filosofia, dalla politica al cinema, e non a caso la serie 89-91 Sites Technology, si apre e si chiude con immagini che insinuano il dubbio dell’impossibilità a comprendere il mondo attraverso lo sguardo. Insomma, fotografare siti tecnologici vuol dire non rivelare nulla, «la verità, se c’è una verità, è inaccessibile e fuori portata». Secondo il filosofo Gus Blaisdell, le immagini di Baltz invitano a praticare uno «scetticismo radicale».
Ferdinand, «Pierrot le fou» di Godard, sigaretta in bocca, adagiato nella vasca da bagno, legge dalla Storia dell’arte di Elie Faure un brano su Velasquez, che «alla fine della sua vita non dipingeva più le cose definite, ma quello che c’è tra le cose». La frase su Velasquez che apre il film è il progetto estetico di Pierrot-Ferdinand-Godard -(e di Baltz) ed è ribadito in una battuta del film: «Ho avuto un’idea per un romanzo. Non descrivere più la vita della gente, ma soltanto la vita, la vita da sola. Quello che c’è fra la gente, lo spazio, il suono, i colori. Bisognerebbe giungere a questo. Joyce ha tentato ma si dovrebbe fare meglio».
In Michelina (con Slavica Perkovic e Michela Terreri, 1999) le immagini sono evocate dal racconto, dalla voce. Negli Scritti Baltz inevitabilmente rivela qualcosa di sé, una resistenza mutuata da Velocity Piece #2 (Impact Run 1969) di Barry La Va, la performance, dove l’artista continua a correre e a scagliarsi contro un muro fino a quando gli sarà possibile, e ribadisce – narrandoci di Gonzalez-Torres – che Somewhere Better Than This Place/ Nowhere Better Than This Place. Eccoci un’altra volta in un luogo da esplorare, e allora Baltz attraverso l’artista contemporaneo Alessandro Laita ci indica come la sola constatazione di un fatto – «sono arrivato qui», senza che nessun altro possa testimoniare al nostro posto possa condurci fuori dalla scomparsa dell’arte, fino al senso «pensante, inflessibile»