GIANLUCA DIANA

Stagione abbondante e generosa quella del 2017. In ambito jazz va dato il giusto riconoscimento a Binker & Moses, autori di Journey to the Mountain of Forever (Gearbox). Il duo londinese si è fatto notare con un doppio disco mai prevedibile, dove grazie anche alla presenza discreta ma importante di Evan Parker, hanno valorizzato le loro idee. Sassofono e batteria, nulla di più se si escludono gli ospiti, si esplicano al meglio in Intoxications from the Jahvmonishi Leaves. Molta bellezza anche dal West Africa, più precisamente dal Mali, con Trio Da Kali and Kronos Quartet in Ladilikan. Sessione di registrazione equilibrata e sorprendente, tra il quartetto d’archi e i maliani che si esprimono con voci e strumenti tradizionali. Magistrali alcuni passaggi dove la sinuosa rotondità del balafon, viene esaltata dalla potenza di violini e violoncelli. Identitaria è Eh Ya Ye. Pubblicazione emozionante anche quella a firma di Rick Estrin & The NightcatsGroovin’ in Greaseland (Alligator), rispecchiando il titolo, è un concentrato di ritmo e competenza. Blues di marca West Coast e Chicago che fa danzare in The Blues ain’t Going Nowhere. Lascia di stucco Watermelon Slim in Golden Boy, capace di affabulare con voce, chitarra slide e armonica, narrando storie meravigliose con testi mai banali i suoi struggle blues. Sublime in Dark Genius. Onirici e psichedelici, capaci come pochi al mondo di costruire paesaggi sonori di inusitata bellezza sono i Golden Retriever. In Rotations concretizzano il loro miglior disco: sognante, leggero e al contempo ricco di capacità descrittive. Un flusso ininterrotto di melodie e ritmi, deframmentati e ricomposti tra electro e strumenti analogici. Brano manifesto: A Kind of Leaving.

STEFANO CRIPPA 

Anno interlocutorio nel colorato mondo del pop e dintorni. Nessuna uscita realmente folgorante, ma parecchio materiale interessante soprattutto da parte di chi pensavamo definitivamente incamminato sul viale del tramonto. È il caso di Jamiroquai che con Automation (Universal) riscatta una serie di produzioni eleganti quanto inutili, con una sequenza di canzoni pieni di citazioni disco e più di una strizzata d’occhio agli arrangiamenti alla Daft Punk. Dagli Stati uniti Drake è sempre più una conferma. Estremamente prolifico ma sempre preciso nelle scelte, More Life (Universal) racconta con meticolosa precisione la storia della black music, dal soul Sixties all’hip hop più lancinante. Con una piccola delizia pop destinata a rimanere nel tempo: Passionfruit. Dalla Nuova Zelanda arriva invece Lorde che ha dato finalmente seguito quest’anno con Melodrama (Universal) al suo esordio folgorante. Musicalmente un disco intriso di sonorità elettroniche à la page (Antonoff, Fiume, Frank Dukes fra gli altri produttori in cabina di regia), dove però non perde la sua straordinaria abilità nel costruire piccoli gioielli pop, ispirandosi – senza negarlo – al suo modello: Kate Bush (la doppia versione di Liability è lì a testimoniarlo). Due progetti italiani per chiudere questa inevitabilmente limitata cinquina: Ghemon non è più solo un rapper e con Mezzanotte (Macrobeats) dimostra un’evoluzione verso la forma canzone che non vuole necessariamente essere la paccottiglia proposta da buona parte dell’hip hop mainstream italiano, bensì un interessante excursus musicale caldo e avvolgente. «Last but not least» Paolo Benvegnù ancora una volta protagonista con il bellissimo H3+ (Woodworn): intelligente, pieno di spunti e con testi una spanna sopra la media. Possibile se ne accorgano così in pochi?

JESSICA DAINESE

Le ragazzacce toscane Cleopatras sono tra le più eccitanti band garage in circolazione (e, badate bene, non parliamo di «migliori band femminili»), e tra le più toste: la loro intensa attività live non si è fermata neppure davanti alla recente gravidanza di Darleene B., la cantante! Nel loro terzo album, Cleopower! (Ammonia), sanno mantenere le cose piccanti, rallentando i tempi, o velocizzandoli fino al punk rock di Witches Are back, facendo un tuffo negli anni Sessanta con la frizzante Ye-Ye Girl, e scegliendo cover di classe, come Chick Habit (April March/Gainsbourg) e Can your Pussy Do the Dog? (Cramps). Dopo l’eccellente Songs of Gold & Shadow, arriva il secondo disco della francese Cleo T.And then I Saw a Million Skies Ahead (Moon Flowers), un album in cui la luce è il filo conduttore. Pare che la polistrumentista Sóley nel suo paese natale (l’Islanda) sia considerata una specie di tesoro nazionale, e ascoltando Endless Summer (Morr Music), non si fatica a capire il perché. Se la regina delle fate ha una voce è quella di Sóley, qui scortata da un folk elettronico solare e luminoso. Secret Fires (Ala Bianca/Warner) è la terza opera del trio bolognese Ofeliadorme, e ancora una volta sovrana del disco è la voce dreamy di Francesca. Le sonorità ricordano spesso gli anni Novanta, dal trip hop del primo singolo Alone with the Stars agli echi Blonde Redhead (da sempre amati dal trio) di Visions. Brillante. A volte è necessario uscire dal proprio terreno sicuro per imbattersi in dischi che non si sarebbero probabilmente mai ascoltati, ma che si scoprono innegabilmente affascinanti. Uno di questi è Viva (Aloch Dischi) dei Campos. Progetto transnazionale, tra Pisa, Berlino e Australia, Viva è un ascolto raffinato: chitarra acustica, suoni elettronici, e una voce maschile importante a sovrastare il tutto.

GUIDO MARIANI

Con A casa tutto bene (Piccica) Brunori Sas firma l’album italiano dell’anno. Senza presunzioni di fare un disco generazionale, il cantautore calabrese ha saputo in realtà fare proprio questo. Un lavoro ambizioso e poetico che descrive meglio di chiunque l’Italia di oggi che ha voglia di lottare, ma è vittima anche di populisti da bar, rivoluzionari che non si schiodano dal divano e patetici razzisti borghesi. E in un’epoca in cui per assistere ai concerti è necessario passare dai metal detector, la sua Canzone contro la paura si è trasformata in un inno al coraggio e alla resistenza. Una bella lezione è arrivata anche da Omar Pedrini che con Come se non ci fosse un domani (Warner) ha reagito alla sua vita messa in bilico dagli interventi al cuore non rintanandosi in una giuria di un talent show o inseguendo il passato con qualche revival, ma con una raccolta di canzoni autentiche e figlie di un cantautorato rock che in Italia è merce rara e preziosa. «Quando pensi di essere finito. Hai appena iniziato». Verso tratto da Songs of Experience (Island/Universal) degli U2 che, parafrasando Mark Twain, conferma che le notizie sulla loro fine artistica sono esagerate. Se una giovane band suonasse così grideremmo al miracolo. Nell’America di Trump The Menzingers cantano la fine della giovinezza in After the Party (Epitaph), un punk springsteeniano, intenso e malinconico che mette in scena ex ragazzi viziati e impreparati alla vita in un presente in cui non si riconoscono. Anche i giovani britannici non se la passano bene. «Un diploma. Sette lavori» così urlano gli Idles da Bristol che, con l’incendiario e sgangherato punk di Brutalism (Balley), hanno voglia di spaccare tutto, soprattutto il conservatorismo britannico che ha portato alla brexit e a un divario sociale sempre più evidente.

SIMONA FRASCA

2017, annus mirabilis. Invocation and Ritual Dance of My Demon Twin (Rocket/Audioglobe) dei Julie’s Haircut è un album liquido e inafferrabile, un’esperienza ipnotica, una madeleine di suoni e stati d’animo, decisamente un corpo estraneo nell’ambito italiano. In Hot Thoughts (Matador/Self) i quattro Spoon di Austin, Texas, scrivono il loro libro indie rock screziato di suoni jingle e riff evocativamente funky in un perfetto contrappunto emozional strumentale. Silver/Lead (Pinkflag) degli Wire è un post punk psichedelico che dà assuefazione, così recita la band all’uscita del sedicesimo album. Come una tavoletta di Toblerone, suono robusto che sa assorbire le asperità di un tempo, strutture semplici, quel particolare muro di suoni che ti fa decidere da che parte stare quando ascolti un disco, dentro/fuori. In A Deeper Understanding (Atlantic) dei The War On Drugs la destrutturazione e il sovvertimento non sono tra le priorità di Adam Granduciel. I referenti prossimi sono il rock “radio friendly” à la Tom Petty (da solista), Bruce Springsteen (Tunnel of Love) un po’ di synthpop qui e lì per un songwriting reinventato in una visione gagliarda. In the Kingdom of Dreams (Loose): sarà stato veramente felice, Ian Felice, quando era con i suoi due fratelli Simone e James nella band folk-rock omonima, qui emerge con una manciata di brani scarni, quasi epitaffi di un genere, che lasciano decantare l’essenziale cantautorato di matrice dylaniana con i contorni di uno spiccato romanticismo malinconico. Vista l’occasione, è doveroso per chi scrive segnalare un bonus ep Laguna di Satana (Schyrec) dei Destroy All Gondolas. Da Venezia mezz’ora di fuoco e fiamme tra metallurgie hardcore e divagazioni surf-rock contro gli stereotipi culturali della grande bellezza nazional-popolare.

MARCO RANALDI

All’insegna della soundtrack e della forza del sound, il 2017 ha prodotto ascolti molto frizzanti e divertenti. A proposito di forza ecco che l’anno si chiude con il grande maestro John Williams per l’ultimo capitolo Star Wars: The Last Jedi (Disney Music) che usa la sua penna per battersi contro le forze oscure. Su altri spazi si muove invece Lele Marchitelli che è oggi in Italia uno dei pochi esempi di compositore che dà significato a ciò che scrive. Compone le musiche di The Young Pope (Warner Music) che vanno ascoltate inoltrandosi in spazi insovvertibili del tempo futuro. L’ascolto di questo doppio cd fa friccicare non solo il cuore ma anche altro. Così come pensa a raccontarci il non consueto musicale un compositore «very Japanese» come Joe Hisaishi che finalmente viene sdoganato anche in Italia con l’ultima colonna sonora per il film The Sun also Rises (Milan). Per capirci, Hisaishi è come sapere che in un luogo caldo troverete del rosè della Borgogna, o forse anche qualche cosa dell’Aglianico. Questa colonna è forte del rock stellare di Hisaishi che è il futuro classico. Pronti a concentrarci sul botto? Ma prima una pagina di assoluta presenza temporale: Loving Vincent di Clint Mansell (Milan) è ciò che ci si aspetta nel narrare la vita di Van Gogh. È musica scritta senza la «cassa» con grande profondità. Ed eccoci al botto con una delle soundtrack più intriganti anche se fa un po’ girare le eliche: è La La Land (Interscope) e la sua Another Day of Sun che ci ricorda tanto l’inizio di Godspell ma Justin Hurwitz è magico nel farci chiudere l’anno in simbiosi con il sole, con il pensiero alle palme e ai vini che fanno sangue! Buon anno!

GRAZIA RITA DI FLORIO

Un anno, questo 2017, decisamente positivo per quanto concerne le operazioni collettive con una propensione più stratificata e articolata degli esperimenti dal gusto sempre più bubblegum del pop contemporaneo, che approdano a due splendidi dischi, e vincono la scommessa di riportare la contemporaneità ad alta densità simbolica e spirituale. Si è già parlato di The Soul of Jamaica (Chapter Two/Audioglobe) del progetto Inna De Yard, una supernova di gemme inusitate che esplode/esplora tra passato prossimo e futuro anteriore. Altro acuto del 2017, Havana meets Kingston (VP), ambizioso progetto partorito dal produttore globetrotter e polistrumentista Jake Savona a cui partecipano artisti, cubani e giamaicani, di altrettanto valore. Radici nella Kingston urbana, ali nella caleidoscopica l’Avana, è musica aerobica, non compressa, che mescola andante allegro e rabbia pneumatica, laddove il commento musicale è sia intrinseco (dato dalla moltiplicazione di senso offerta da interpretazioni poco stereotipate) sia estrinseco nella forma di un «collage» inedito. Si è detto della nuova generazione di musicisti che è andata ripiegandosi su stessa, dissipando un patrimonio di ispirazione e indignazione senza eguali. Poi, basta un esordio come quello del ventenne Samory-I per ricredersi, che dimostra, dallo pseudonimo, un recupero di storia e memoria. Per di più l’album si intitola Black Gold (Rorystonelove); ultraprodotto, ma presenta melodie vocali e un feeling così autentico e profondo da farne una perla rara. Tra i nostri highlight del 2017 anche Liberation Time (Jarring Effects) a firma Brain Damage meets Harrison Stafford e Transparent Water (Otà/Harmonia Mundi) di Omar Sosa/Seckou Keita.

FLAVIO MASSARUTTO

Cominciamo la cinquina da mettere sotto l’albero con l’ultimo capitolo della saga afrofuturista della flautista Nicole Mitchell, Mandorla Awakening II: Emerging Worlds (Fpe). Da una novella sci-fi scritta da lei stessa la musicista compone un racconto per quadri sonori multicolori con un ottetto dallo strumentario amplissimo (dallo shakuhachi al banjo). L’estetica AACM ai suoi massimi livelli odierni. Restiamo nello spazio con il quartetto internazionale riunito da Roberto Ottaviano nel suo Sideralis (Dodicilune). Con un occhio a Coltrane e l’altro al miglior jazz contemporaneo il sassofonista pugliese regala un album dove eccelle per qualità strumentale e compositiva. Con lui il pianista free europeo del momento Alexander Hawkins, il bassista Michael Formanek e il batterista Gerry Hemingway. Fisico, energico, danzante è il duo tra Marco Colonna (sax baritono, contralto e sopranino) e il percussionista Cristian Lombardi che firmano Medea (Setola di Maiale). Colonna si sovraincide per creare strati di suono e con Lombardi dà vita a brani da un deciso contenuto ritmico speziato di aromi etnici. Da servire a volume sufficientemente alto. Vengono dalla fredda Scandinavia ma scaldano il cuore gli Angles 9 del sassofonista Martin Kuchen con Disappeared Behind the Sun (Clean Feed). Un nonetto scatenato che propone una miscela di free jazz, funk e afrobeat. Pezzi lunghi per lasciarsi andare alle scorribande dei fiati. Per chiudere la lista non può mancare un album di canzoni. Ci pensa la cantante belga, di origini italiane, Melanie De Biasio con Lilies (Pias/Self). Se avete amato No Deal questo nuovo lavoro non vi deluderà. Se non la conoscete vi si incollerà al cuore. Fascinosa e talentuosa come poche De Biasio mescola jazz, blues, ambient, art rock. Notturna, raffinata, sensuale.

GUIDO MICHELONE

Ha 72 anni, oggi, il maggior folksinger canadese, Bruce Cockburn, che torna in studio per Bone on Bone (True Norton/Ird), album carico di spiritualità ma anche di contenuti, dall’ecologia ai diritti umani, con una forma-canzone limpida, tra mille coloriture sonore: blues, cajun, folk rock, persino jazz. E proprio dal jazz arriva il singolare tributo a un altro cantautore, prematuramente scomparso: Jeff Buckley Songs and Sounds (Ridgeway) è il titolo del cd che propone il quintetto Eternal Life (Dineen, Link, Lion, Salcedo + 8 ospiti) impegnato a omaggiare una paritetica valenza nel canto e nella musica con un lavoro di proposito eterogeneo. D’altronde è il jazz stesso a essere linguaggio vario e versatile fino a spingersi verso direzioni avanguardiste, come avviene a New York sotto l’etichetta Neither/Nor, tra le nuove e ultime rimaste a incoraggiare le musiche improvvisate. Per essa Sean Ali firma My Tongue Crumbles Afterhours, per solo contrabbasso, dunque in completa solitudine: otto brani dove la ricerca timbrica s’associa volentieri a cadenze ritmiche e a spunti talvolta melodici. A fare jazz più vicino invece alla tradizione spicca l’inedito trio Laginha/Argüelles/Norbakken in Septembro (Edition) ispirato alla terra portoghese: Mario, pianista lusitano, Julian, sassofonista britannico e Helge, batterista norvegese, inventano un sound quasi cameristico dalle forti suggestioni descrittive. Ancor più europeo e letterario risulta La vie devant soi di Renaud García-Fons, il quale abbandona per un attimo il jazz-flamenco per avvicinarsi alla storia della cultura parigina novecentesca in un trio acustico (contrabbasso, accordéon, vibrafono o percussioni) a mescolare chanson, valse musette, swing gitan in 11 pezzi inediti e con spirito d’antan.

MARCO DE VIDI

I Putan Club, viaggiatori indomabili, si imbattono nella comunità della Banga in Tunisia, nel deserto del Djerid. Ne viene fuori un gruppo, Ifriqiyya Electrique, e un disco, Rûwâhîne (Glitterbeat) in cui percussioni e canti tradizionali riemergono da tempeste noise e beat techno. La liberazione si compie solo attirando i demoni, in un rituale che assomiglia a un rave e che ridefinisce l’idea stessa di world music. Voce profonda, arrangiamenti raffinati, quella tipica magnificenza brit che ci ricorda che il rock, in fondo, è nato qui. Artista di seconda generazione, inglese con radici pakistane e norvegesi, Nadine Shah si schiera con rabbia contro indifferenza e pregiudizi. Da sempre poetica e antiretorica, in Holiday Destination (1965/Self), canta di immigrazione e razzismo, accompagnata da chitarrone scure. Gli australiani King Gizzard & The Lizard Wizard mantengono vivo il fuoco r’n’r Seventies. In Murder of the Universe (Flightless/Ato/Heavenly/Self) mischiano surf rock, garage, stoner, prog. Un concept horror-fantasy, come ai vecchi tempi, per il decimo album in carriera e uno dei cinque (!) pubblicati nel 2017. Il grande e inaspettato ritorno di quest’anno. Karin Dreijer, cantante svedese creatrice assieme al fratello Olof del duo The Knife, riprende il progetto solista Fever Ray dopo otto anni con Plunge (Rabid), ripartendo dall’electropop di matrice nordica, aprendosi a influenze orientaleggianti e rivendicando la liberazione del corpo e il ritorno alla natura. Un diario post punk per raccontare la Resistenza. Havah è il progetto solista di Michele Camorani. In Contravveleno (Maple Death) i testi sono ispirati dalla testimonianza del partigiano romagnolo Nullo Mazzesi. Che racconta l’innocenza, la disperazione e la gioia incosciente di chi è costretto a prendere le armi.

MARIO GAMBA 

Questa Top 5 non è una classifica. Ma il Roscoe Mitchell di Bells for the South Side (2 cd, Ecm/Ducale) ha un tale bagliore nel cielo delle musiche straordinarie dell’annata che un posto di primato non si può negarglielo. Un organico largo (un nonetto) espande il pensiero radicale del leader dell’Art Ensemble of Chicago, tra post-free e «contemporanea», mostrando un’ipotesi di quello che l’Aeoc sarebbe potuto divenire. Esplorazioni di tutte le possibili vie percussionistiche della musica, avvincente scrittura pianistica di Craig Taborn e Tyshawn Sorey, sequenze solistiche di Mitchell ispirate a una visione estrema e intensa della razionalità, una combinazione perfetta di composizione e improvvisazione con un grande calore comunicativo. Si è formata una bella coppia di pianisti per realizzare Two Pianos (Stradivarius/Milano Dischi), Anna D’Errico e Alfonso Alberti. Tre prime registrazioni mondiali: Sonata di un Salvatore Sciarrino diciannovenne in una incredibile spiazzante ricerca del passato, Alter-Face (2004) di Georges Aperghis, dialogo assorto, forse sornione, e Omaggio a Edward Grieg (1981) di Niccolò Castiglioni, divertentissimo gioco di moderne romanticherie. Nel cd anche splendidi Ligeti e Dufourt. D’Errico sprizza vitalità anche suonando Suite n. 6 di Giacinto Scelsi come lo suonerebbe il miglior Cecil Taylor. Accade in Collection Vol. 7 (Stradivarius/Milano Dischi), dove è in primo piano con lavori scelsiani perturbanti il violinista Marco Fusi. Che è protagonista assoluto in Complete Works for Violin and Viola (Stradivarius/Milano Dischi) tutto di musiche di Salvatore Sciarrino dal 1974 al 2009. E lì sai quali perturbamenti puoi trovare! Delirio ultra-free e commosso lirismo protestatario, invece, nel vinile del Summit Quartet registrato al festival di Sant’Anna Arresi (Ass. Punta Giara).

FRANCESCO ADINOLFI 

Soul Sound System (Crunchy Frog) è il debutto dei D/Troit, quintetto di Copenhagen. Una vertigine garage soul con voci in bilico tra falsetti alla Curtis Mayfield e profondità gospel. Il pezzo che dà il titolo al disco è un classico del genere, oltre i Kooks. Il secondo album dei londinesi Crowd Company sorprende per l’attenzione agli arrangiamenti e per l’impeccabile produzione di Alan Evans (Soulive). In Stone & Sky (Vintage Music League/Willwork4funk), l’ottetto fa leva sugli intrecci vocali di Rob Fleming, Esther Dee e Jo Marshall impastati a botte di Hammond, fiati e ritmi irresistibili. Soprendente Scum (Parlophone), il debutto di Rat Boy (vero nome Jordan Cardy) a cui collaborano anche i due Blur, Graham Coxon e Damon Albarn. Influenzato da Clash, The Streets, Ian Dury, Jamie T e dagli stessi Blur (molto molto), Rat Boy tratteggia una sequela di vignette quotidiane in cui gentrificazione, disoccupazione, anti-trumpismo e adolescenze sempre in bilico diventano pane quotidiano. «Non passerà molto prima che io firmi/giusto o sbagliato/non ho più un soldo, tutto finito» (dal singolo Sign on; ovviamente il riferimento è al sussidio di disoccupazione). Debutto solista con As You Were (Warner) anche per Liam Gallagher che imbarca autori come Greg Kurstin (Adele, Sia, Ellie Goulding) e colpisce. Addio agli esperimenti insapori post Oasis con i Beady Eye e benvenuti nel regno solista di una rockstar che pecca nella scrittura (testi non confrontabili con quelli del fratello) ma che vola (più di Noel) nei suoni: ballate, blues ruvido, rock’n’roll irresistibile. E infine Martha High e il suo Tribute to My Soul Sisters (Record Kicks). La storica vocalist/Funky Diva di James Brown si accompagna ai funkster giapponesi Osaka Monaurail omaggiando i pezzi di colleghe come Lyn Collins o Vicky Anderson, cantanti – come Martha – della squadra di Brown.

LUIGI ONORI

Jazziste e jazzisti celebrano personaggi e repertori, senza rinunciare all’attualità. Experience Nexus (Rudi) vede i leader dell’ensemble Nexus (nato nel 1980) Tiziano Tononi e Daniele Cavallanti riflettere in musica su gruppo/composizioni originali nonché rilanciarne la «militanza sonora» con jazzisti più giovani (F. Chiapperini, G. Mitelli, E. Parrini, P. Mirra e S. Bolognesi). La voce di Ada Montellanico (con G. Falzone, F. Vignato, M. Bortone e E. Baron) evoca fuor di retorica Abbey Lincoln in Abbey’s Road (Incipit). Dice la cantante: «Ho voluto restituire ciò che mi arriva di lei, proprio questo senso del combattere per i propri ideali e utilizzare la musica come messaggio, come veicolo di contenuti di ‘peso’. Oggi è necessario ritornare a quest’impegno». Core/Coração (Jando Music) di Maria Pia De Vito è un lavoro quanto mai transculturale: 13 canzoni di Chico Buarque e altri «giganti» della MPB tradotti dal portoghese al napoletano fino ad acquistare doppia e policroma cittadinanza sonora, esaltata dalla presenza di Buarque in due tracce. Ancora una donna compositrice – la flautista afroamericana Nicole Mitchell – che nei 7 movimenti della suite Moments of Fatherhood (RogueArt) evoca in parallelo i «padri» afroamericani (W.E.B. Dubois) e francesi (progetto realizzato per «Sons d’hiver» con Black Earth Ensemble ed Ensemble Laborintus): passato e presente, tra scrittura e improvvisazione. In questa direzione spiazza tutti il sestetto del pianista indoamericano Vijay Iyer che in Far from Over (Ecm/Ducale) fonde le migliori menti del jazz Usa contemporaneo, in un vertiginoso melting-pot sonoro: Graham Haynes, Mark Shim, Steve Lehman, Stephen Crump e Tyshawn Sorey.

LUCIANO DEL SETTE

Nel 2018 Bobo Rondelli festeggerà venticinque anni di carriera. Soffio anticipato sulle candeline, Anime storte (The Cage/Sony Music) canta le nuove solitudini del Terzo Millennio. Dagli amici su Facebook alla noia della provincia, dall’amore privo di pazienza al difficile desiderio di libertà, Bobo si conferma menestrello amaro e pungente. Grande regalo di fine 2017 viene dal Canzoniere Grecanico Salentino con Canzoniere (Ponderosa). Lecce e New York si uniscono in una linea melodica che, con il contributo preziosissimo di voci e strumenti «altri», imprime nuova nettezza al segno della tradizione musicale salentina. I dodici brani lasciano commossi fin quasi allo smarrimento. La sua Aziza, nell’album d’esordio solista, Ya Nass, era diventata inno del riscatto delle donne arabe. Già leader dei Soapkills, la libanese Yasmine Hamdan si conferma con il secondo lavoro, Al Jamilàt, instancabile tessitrice di orditi poetici tra Oriente e Occidente, miscelando pop, rock, sonorità etniche, oud, straniamenti elettronici. Splendida la sua voce. E a proposito di musica meticcia, come non citare Canti, ballate e ipocondrie (Squilibri) di Canio Loguercio, miglior album dialettale all’ultimo Premio Tenco. Canio intreccia citazioni colte e linguaggi popolari insieme al magistrale organetto di Alessandro D’Alessandro e a un’orchestra anarchica di tammorre, piano, chitarre, trombe, voci roche, recitativi di antica appartenenza. Infine Barro, brasiliano di Recife e il suo Miocardio (A Buzz Supreme/Audioglobe), altra alchimia che declina testi multilingue sotto l’egida solo indicativa dell’alt-pop. Il muscolo del cuore di Barrio batte forte e bene. E con lui quelli di gente della nuova scena di São Paolo, Gui Amabis e Marcia Castro, ad esempio. Cercate il disco con ostinazione.

VILMO MODONI

Questo 2017 è caratterizzato da alcune artiste di grande valore. Su tutte Jessica Moss con Pools of Lights (Constellation/Goodfellas). La violinista canadese si cimenta con un album difficile e doloroso, privo di quelle rincorse ritmiche ed emotive tanto care ai fruitori superficiali, e invece zeppo di ritmiche strambe e fluidi melodici disperati e sinistri, appena temperati dal fascino ipnotico di malinconiche sonorità klezmer. Musica sospesa, in bilico tra la catarsi e l’abisso. Tutt’altro calore sprigiona da Joan Shelley (No Quarter), l’album omonimo della cantautrice del Kentucky. Joan Shelley si conferma una delle interpreti più credibili del folk contemporaneo. Un disco segnato da finezze armoniche e una forza interpretativa tranquilla e decisa, dove arrangiamenti appena abbozzati lasciano spazio alla splendida voce. Ed è la vocalità uno dei punti di forza di Intra (Ird) della verbanese Cristina Meschia, riuscito connubio tra jazz e folk, italiano e dialetto. La cantautrice apre una finestra su storie minime del microcosmo che gravita attorno alle sponde del Lago Maggiore. Intenso. Dal locale al globale, Nadine Shah con Holiday Destination (1965/Self) ha firmato il suo lavoro più politico e duro, un manifesto che coniuga particolare e universale. Xenofobia, cronache di ordinario razzismo, rabbia, desolazione e allo stesso tempo speranza, riunite nelle canzoni della musicista di origini pakistane e norvegesi. Da ultimo, a ripristinare un minimo di parità di genere, il 2017 segna il ritorno di un grande vecchio in splendida forma, Bruce CockburnBone on Bone (True North) è l’ennesimo album di un autore ispirato come non mai che, in 11 canzoni, racconta il male di vivere nell’America di Trump e la sua personale ricerca spirituale.

GUIDO FESTINESE

Un contralto scuro, tellurico, venato di una malinconia che a tratti sembra quasi una presenza fisica, accanto alla donna con la chitarra in mano. Usata più come uno strumento a percussione che come un cesello di dolcezze arpeggiate. Lei è Lula Pena, e in Archivio pitoresco (Crammed Discs/Ma.So.) ribadisce una lezione di scabra intensità che lambisce e accarezza il fado portoghese. E poi lo traghetta verso tutt’altri lidi. Avere tra le mani un doppio cd di inediti di Thelonious Monk è una specie di sogno fastoso da collezionisti jazz. Eppure è accaduto: da Sam Records è arrivato Les liaisons dangereuses, 1960, session a New York del gruppo di Monk con l’aggiunta di un giovane e spiritato Barney Wilen per il film di Roger Vadim. Mai pubblicate prima: era ora. Con brani preziosi . Era ora anche che Claudio Lolli tornasse un po’ sotto i riflettori. L’ha fatto con Il grande freddo (La Tempesta), Targa Tenco: fa un po’ sorridere che per inciderlo ci sia stato bisogno del crowdfunding, ma tant’è, se i risultati sono questi: un’analisi del presente e dell’attuale «retropia» senza sconti per nessuno. Il sogno di un’orchestrina impossibile che incide musiche impossibili e suadenti per un altro pianeta continua con The Imperfect Sea (Erased Tapes), nuovo lavoro per la Penguin Cafe guidata da Arthur Jeffes, figlio del «primo pinguino» Simon, scomparso tanti anni fa. L’incubo di musiche possibili e che fotografano con crudezza la sgradevole sensazione di vivere in un presente avvitato su guerre, sopraffazione e cinismo di classe trionfante vive con Luciferian Towers (Constellation/Goodfellas) dei possenti Godspeed You! Black Emperor. Crescendo epici, un senso di quiete minacciosa e intermittente che apre a climax quasi intollerabili, minimalimo e massimalismo in musica: specchio della realtà.

GIROLAMO DE SIMONE

Marco Lo Muscio da tempo ha adottato una trasversalità estetica, dacché in concerti e dischi mostra pervicacemente una contiguità tra passato e presente che non esitiamo a ricondurre all’antica matrice dell’improvvisazione organistica. The Organ Works of Marco Lo Muscio (Priory) propone sue composizioni registrate da Kevin Bowyer a Glasgow. Tra queste, le Nuove litanie, premiate da Stephen Farr durante il Festival che si tiene sul Monte che più Sacro non v’è: la Verna. Analogo eclettismo prospettico e stupenda presenza di suono sono in Daniele Ingiosi, che in Riflessi di tango (Ema Vinci) seleziona brani celebri di Piazzolla, Bardi, Villoldo, con un omaggio a Luis Bacalov, e con trascrizioni inedite per fisarmonica Bayan e bandonéon, Si segnala la suadente Sud, composta ad hoc da Ingiosi. La memoria ispira anche Oggi si vola (Prom), con l’Orchestra Collegium Philarmonicum diretta da Renato Piemontese e le musiche di Lello Roccasalva, trascritte da Carlo Mormile. Un disco di pura godibilità neo-prog, con suoni reali e un certosino e magico editing. In evidenza, tra i solisti, Gennaro Cappabianca, Giuseppe Navelli ed Enrico Mormile. Enore Zaffiri, tra i pionieri della musica elettronica italiana, in Musica per un anno (Mazagran), con le implemenentazioni digitali di Andrea Valle e l’esauriente excursus teorico di Vincenzo Santarcangelo, segue l’utopia elettronica dei brani «perpetui», nella scia di un’intuizione di Satie (il cui vero brano «perpetuo» è proprio un tango). Nel cd vi sono alcune delle variazioni possibili di un suono sinusoidale implementato. Su www.aimi-musica.org se ne può ascoltare un assaggio. Segnaliamo infine Songs, Ideas & Jazz (Bagaria) di Pietro Condorelli, raffinatissimo chitarrista jazz, che qui meravigliosamente raccoglie idee trascorse e «dà ordine al movimento».

ANTONIO BACCIOCCHI

Discreta annata discografica che ha proposto ottime uscite pur senza capolavori indimenticabili. Il rock tradizionale continua a dare grandi soddisfazioni grazie a una lunga serie di vecchie glorie ancora in formissima, la black music si muove sempre veloce e creativa, restano comunque rari i nomi in grado di regalare momenti di stupore. Ad esempio Another Summer of Love dei Gospelbeach (Alive), un incantevole gioiello di sapori Sixties beat tra chitarre jingle jangle alla Byrds, cori alla Beach Boys, melodie alla Beatles. Mavis Staples, magnifica voce nera, a lungo negli Staples Singers, ancora una volta prodotta da Jeff Tweedy, sforna con If All I Was Was Black (Anti-/Self) un eccellente lavoro di gospel soul intriso di testi militanti imperniati sulla pessima situazione della comunità nera negli States. Kamasi Washington, nuova stella del jazz moderno, già assurto a gloria mondiale con il triplo The Epic, affida il suo ritorno discografico a un lungo ep in chiave concept: Harmony of Difference esplora di nuovo con disinvoltura, creatività e grande spessore artistico, varie sfumature del jazz. In Italia sono numerosi i titoli che meriterebbero una citazione. Sicuramente Edda con Graziosa utopia (Woodworm) si conferma uno dei cantautori più originali in circolazione, grazie a una poetica pressoché unica, originalissima e una modalità compositiva immediatamente riconoscibile. Impossibile non scegliere l’ennesimo convincente sforzo del sempre grande Cesare Basile che in U fujutu si nesci chi fa? (Urtovox) ci trasporta in un vortice di oscuro blues mediterraneo, cantato interamente in siciliano, cosparso di umori africani, corredato da alcuni dei migliori testi in circolazione, che ne fa uno dei nomi di maggior rilievo della canzone d’autore italiana.

ROBERTO PECIOLA

Da inguaribili ottimisti e romantici siamo sempre in attesa che qualcuno ci regali il disco capolavoro, l’album da mettere lì, tra quelli che porteresti con te ovunque, il disco del decennio, per dire. E invece ormai da anni non possiamo che accontentarci di buoni, a volte anche ottimi dischi, ma che non durano mai più di qualche mese di ascolti. Il 2017 non ha fatto eccezione ma sicuramente dal punto di vista del rock più energico, se non estremo, qualcosa si è ascoltato. Parliamo ad esempio, e in particolare, di tre album (in ordine sparso): Emperor of Sand (Reprise) dei MastodonThe Guillotine (Rocket/Audioglobe) degli Hey Colossus e Reflections of a Floating World (Stickman/Self) degli Elder. Tre album molto diversi tra loro che riflettono tre stili metal, quello più classico ma dalle venature prog dei Mastodon, quello dai colori psichedelici degli Elder e quello che guarda allo sludge, al math e all’alt-rock dei londinesi Hey Colossus. Cambiando registro e spostandoci su sonorità più morbide troviamo una sorpresa dell’ultimo momento, un disco uscito proprio in questo finale di anno, (Big Dada), della cantante e autrice – norvegese ma da tempo residente a Londra – Anna Lena Bruland in arte Eera, una miscela molto ben riuscita tra l’indie-rock di PJ Harvey e il dreampop. Ma il nostro album dell’anno è Relaxer (Infectious/Pias/Self), terzo lavoro degli inglesi Alt-J, tra i pochi artisti ad averci regalato un disco di quelli che porteremmo sempre con noi, ossia il loro esordio An Awesome Wave (2012). Gran classe, molte idee, arrangiamenti non scontati, una serie di canzoni davvero affascinanti – una su tutte, Adeline – e una rivisitazione davvero originale (The House of the Rising Sun). Ed è di questi giorni un nuovo brano, bellissimo (Hares on the Mountain), per la colonna sonora di Bright, il nuovo film di Will Smith su Netflix.