Tra gli storici più apprezzati della seconda metà del Novecento, Tony Judt se ne è andato nell’estate di dieci anni fa a soli 62 anni stroncato dalla malattia. A lui si devono libri che hanno segnato la riflessione sulla storia europea e il ruolo degli intellettuali, da Postwar a L’Età dell’oblio, fino a Novecento e Guasto è il mondo, tutti pubblicati da Laterza.

TESTI A CUI SI AGGIUNGE, quasi a segnalare un’ulteriore eredità del suo pensiero, la raccolta di articoli, tra quelli che lo storico aveva scritto a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, curata dalla moglie, la storica Jennifer Homans, Quando i fatti (ci) cambiano (Laterza, pp. 412, euro 28, traduzione di Paola Marangon). Storica della danza e firma del New Republic, nell’introduzione al volume Homans riflette sul significato di interventi nei quali lo studioso abituato a misurarsi con il lungo periodo, e con ricostruzioni minuziose – solo Postwar supera abbondantemente le 1000 pagine – si soffermava invece sul presente e la sua natura fugace.

«Questo è un libro sul nostro tempo. – scrive Homans annunciando i temi presi in esame nella raccolta – La parabola è discendente: dal colmo delle speranze e delle possibilità, con le rivoluzioni del 1989, alla confusione, la desolazione e lo smarrimento dell’11 settembre, poi la guerra in Iraq, l’inasprimento della crisi in Medio Oriente e il pericoloso declino della repubblica americana». Un lavoro di scavo sull’attualità che si sarebbe interrotto bruscamente con la morte prematura di Judt.

Nel libro tornano però in forma di brevi saggi o veri e propri articoli giornalistici, in gran parte usciti sulla New York Review of Books, New Republic e il New York Times, alcune delle passioni, e dei luoghi, che hanno contraddistinto l’itinerario umano e professionale dello storico: l’Europa, Israele e gli Stati Uniti.

Nato in una famiglia di ebrei secolari dell’East End londinese, Judt era cresciuto sentendo parlare yiddish e aveva guardato a lungo all’esperienza israeliana con particolare affetto, prima di allontanarsene di fronte all’imporsi di un pericoloso «mito etnico». L’Europa, che aveva attraversato in lungo e in largo sia prima che dopo la caduta del Muro di Berlino era stata il suo secondo grande amore, prima che la vita lo conducesse a New York dove si stabilì lo stesso anno dell’attacco alle Twin Towers.

ATTENTO STUDIOSO dell’Olocausto, era un convinto assertore del valore civile dell’indagine storica e amava citare le parole della Peste di Camus che ora compaiono in esergo a questa raccolta: «Saranno gli altri a fare la storia (…) Dico soltanto che sulla terra ci sono flagelli e vittime e che per quanto possibile bisogna rifiutarsi di stare dalla parte del flagello».