Se c’è un essere vivente con il quale l’uomo ha un debito di sopravvivenza, questo è il pesce: è la proteina animale più mangiata al mondo e, secondo le statistiche della Fao, sono 120 milioni le persone che lavorano nel settore della pesca, il 90 per cento delle quali impegnato in quella artigianale, di piccola e media dimensione. Il 97 per cento degli addetti vive in Paesi in via di sviluppo e lotta quotidianamente per sfamarsi, uno su due è donna e lavora nella vendita o nella trasformazione. La pesca è anche un grande business commerciale che vale, a livello globale, circa 143 miliardi: un pesce su tre finisce sul mercato dell’import-export e chi importa di più sono i Paesi più sviluppati, che assorbono circa il 71 per cento dell’offerta.

Il costo ambientale di questa attività, tuttavia, è altissimo: un terzo dei pesci che finiscono tra banchi e frigo è di una specie sovrasfruttata e a rischio di estinzione, tanto che le Nazioni Unite, nel momento in cui hanno ridefinito i propri obiettivi di sviluppo sostenibile da raggiungere entro il 2030 (SDGs), hanno concordato di «proibire entro il 2020 alcune forme di pesca che contribuiscono al sovrasfruttamento e alla sovrapproduzione, di eliminare alcuni sussidi che contribuiscono alla pesca illegale, non registrata e non regolata (illegal, unreported and unregulated fishing – IUUF) e di impedire l’introduzione di nuovi sussidi», riconoscendo però che «i Paesi meno sviluppati debbano ricevere da parte dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) un trattamento speciale differenziato nell’ambito dei propri 164 membri» per proteggere la sopravvivenza dei piccoli pescatori tradizionali. Questo è uno dei temi più rilevanti affrontato dalla Wto nell’ambito della controversa undicesima Conferenza ministeriale convocata a Buenos Aires dal 10 al 13 dicembre.

È DAL VERTICE riunitosi a Doha nel 2001, a meno di un mese dall’attentato alle Torri gemelle e dedicato allo sviluppo come occasione di pacificazione mondiale, che i membri della Wto dicono di voler trovare un accordo efficace sulla pesca senza riuscirci, e da sedici anni a questa parte gli stock di pesce si assottigliano. A livello globale specie come l’acciuga peruviana, l’aringa atlantica, il merluzzo dell’Alaska, ma anche altre più note e protette come il tonno rosso, stanno scomparendo da un anno all’altro. Un grave problema ambientale, che danneggia non solo l’ecosistema ma anche l’economia di molti Paesi già poveri: la World Bank stima che globalmente ogni anno vadano perduti a causa della pesca eccessiva almeno 84,6 miliardi di dollari, 23 miliardi per quella illegale, di cui 10,4 miliardi solo in Africa e 470mila nell’Oceano Pacifico occidentale e centrale.

IN ITALIA, per tentare in extremis di proteggere il patrimonio naturale mediterraneo, è partito a inizio novembre un Piano di sussidi per le demolizioni della flotta dei pescherecci nazionale: «Un sacrificio di capacità produttiva ed occupazionale, che avremmo preferito evitare ricorrendo a sistemi meno drastici e che può essere accettato solamente avendo riguardo alle finalità di protezione e ricostituzione delle risorse ittiche oggetto di sovrasfruttamento», ha commentato il presidente di Federpesca, Luigi Giannini. L’Italia, tuttavia, resta una forte consumatrice di pesce: al momento, però, solo il 15 per cento del fabbisogno nazionale viene soddisfatto dalle imprese italiane di pesca e acquacoltura mentre l’85 per cento dei prodotti ittici è importato.

È PER QUESTO CHE UNA DECISIONE stringente della Wto sul tema sarebbe importante anche per il nostro Paese, ma come al solito a Buenos Aires si rischia di andare nella direzione sbagliata, nonostante quello della pesca sia uno dei pochi temi sui quali c’è una visione convergente. «Dovremmo ringraziare gli ambasciatori del gruppo di lavoro sulla pesca di essere arrivati a mettersi d’accordo intorno a una bozza di testo, nonostante le differenza», ha reclamato il negoziatore giamaicano Wayne McCook, che ha coordinato il tavolo, al suo arrivo nella capitale argentina. Il pacchetto di misure in discussione a Buenos Aires si concentrano sul taglio degli aiuti che possano alimentare la pesca illegale, ma anche misure di gestione della capacità produttiva, spinte da Europa e Giappone, più che su quelle rivolte al sostegno a flotte e grandi navi coinvolte nella pesca illegale, alla pesca eccessiva e alla sovrapproduzione. Il volume dei sussidi al settore ammonta a circa 35 miliardi di dollari l’anno, dei quali circa 20 vanno ad aumentare la capacità di pesca delle grandi flotte nord-europee, giapponesi, ma anche cinesi e statunitensi. È per questo che i Paesi di Africa, Caraibi e Pacifico puntarono da subito a chiedere un trattamento differenziato tra Paesi ricchi e Paesi meno avanzati, che però in questa conferenza ministeriale, nonostante la decisione presa dalle Nazioni Unite, rischia di cadere sotto i veto incrociati degli esportatori. I Paesi poveri, inoltre, chiedono di tagliare immediatamente i sussidi alla pesca che riguardi le specie in sofferenza, ma l’Europa, ad esempio, contropropone che da queste misure vengano eccettuate le acque territoriali, condannando a morte certa, secondo le valutazioni di alcuni Paesi poveri, molte specie locali che andrebbero invece maggiormente protette.

IL PACIFIC NETWORK ORGANIZATION (PANG), che rappresenta l’area delle isole del Pacifico dove il pesce assicura tra il 50 e il 90 per cento della dieta dei più poveri, denuncia: «Non sono le piccole flotte dei villaggi a distruggere le risorse marine con la pesca illegale – ci spiega il loro campaigner Adam Volfenden – ma le grandi flotte straniere che causano a queste isole perdite per oltre 140 milioni di euro l’anno. Un abbattimento degli aiuti alla pesca artigianale in queste aree povere butterebbe sul lastrico milioni di famiglie, anche perché chi trasforma il pesce deve già affrontare standard due volte e mezzo più costosi di quelli del resto della manifattura, per cui senza sussidi molte piccole e micro imprese sarebbero costrette a chiudere. Ironicamente i sussidi a favore delle grandi flotte rimarrebbero intatti». Per di più il negoziato in corso «vuole azzerare le tasse che gli Stati impongono alle flotte straniere che pescano nel proprio territorio. Nel 2016 le risorse pubbliche derivate per le isole del Pacifico da queste misure valevano circa 400 milioni di dollari. Nel 2011 con regole diverse erano solo 60 milioni. E’ quello che Paesi come la Nuova Zelanda cercano di ottenere il taglio attraverso la Wto, ma sarebbe devastante per quelle isole».

TRA GLI OLTRE SESSANTA ESPERTI e attivisti cui il governo argentino ha negato la partecipazione al vertice e l’ingresso nel Paese per presunti «motivi di sicurezza» c’è Poguri Chennaian, coordinatore del sindacato contadino asiatico più rappresentativo, l’Asian Peasant Coalition, e segretario del sindacato dei pescatori dell’Andhra Pradesh (Apvvu), che ha denunciato che «l’accordo potrebbe danneggiare irrimediabilmente gli 8mila chilometri di costa indiana che consentono ai villaggi costieri di sopravvivere. Noi siamo stati già devastati dall’apertura di mari e mercati agli operatori stranieri, la situazione non può che peggiorare e forse ci hanno tenuto lontano dal Paese per chiuderci la bocca». «Per colpa delle liberalizzazioni spinte dalla Wto – ha confermato la segretario del sindacato Apc nelle Filippine Zanaida Soriano, anche lei esclusa dal vertice – Paesi come il mio che un tempo erano grandi produttori alimentari, oggi sono importatori netti. Quindi è chiaro che i beneficiari principali dei sussidi attuali non siamo noi, ma le grandi flotte di Giappone, Europa e Stati Uniti che sono i responsabili della pesca eccessiva e dei danni all’ambiente che subiamo. Vietare gli spiccioli ai più poveri è offensivo, a questo punto. Se negandoci il visto volevano metterci a tacere, stiano sicuri che non ci riusciranno». Se le decisioni della Wto andranno contro quanto già condiviso dalle Nazioni Unite, per movimenti e associazioni la partita non si chiuderà in Argentina.