Quando, nel 1978, decide di abbandonare il mestiere di editor all’interno del gruppo Random House per dedicarsi esclusivamente alla scrittura, Toni Morrison ha già quarantasette anni e tre romanzi alle spalle. Se l’esordio, L’occhio più blu, ha avuto un’accoglienza contrastata, ottenendo un’attenzione critica pari all’indifferenza del pubblico, i successivi Sula e soprattutto Canto di Solomon l’hanno portata al successo e alla fama: il primo è stato candidato al National Book Award e il secondo ha vinto il National Book Critics Circle Award, oltre a essere selezionato per il Book of the Month Club, primo romanzo afroamericano ad arrivare a tanto dopo Ragazzo negro di Richard Wright.

Tardivi riconoscimenti
Una fama, quella di Morrison, che conoscerà una breve battuta d’arresto con il successivo Tar Baby (tradotto in italiano come L’isola delle illusioni), bene accolto in termini di vendite ma criticato per quello che ad alcuni appare un eccesso didascalico; ma che poi si consoliderà con la pubblicazione di Beloved – secondo molti, a tutt’oggi il suo capolavoro, premiato con il Pulitzer nel marzo del 1988 dopo che, due mesi prima, al New York Times era pervenuta una lettera firmata da quarantotto scrittori e intellettuali neri, da Alice Walker ad Amiri Baraka, che polemizzavano sul fatto che a una scrittrice del livello e della fama anche internazionale di Morrison non fosse ancora stato attribuito il National Book Award. Insieme ai successivi Jazz e Paradiso, Beloved va a comporre quella che la stessa Morrison ha più volte definito una trilogia sulla storia afroamericana, e che rappresenta probabilmente il vertice assoluto della sua arte.

La redenzione del «noi»
Proprio mentre comincia a lavorare al terzo capitolo della sua trilogia le viene conferito il Nobel per la letteratura, e Morrison reagisce così alla notizia: «Sono immensamente felice. Ma quel che è più strabiliante per me è sapere che questo premio è stato finalmente dato a uno scrittore africano-americano». In seguito aggiungerà: «Ero eccitata per “noi”. Era come se un’intera categoria di “scrittrici donne” e “scrittrici nere” fosse stata redenta. Sentivo di rappresentare un intero universo di donne che erano state ridotte al silenzio e che non avevano mai ricevuto l’imprimatur del mondo letterario. Ho provato la stessa cosa delle prime volte in cui ho ricevuto una carica onoraria: era importante per i giovani neri vedere che succedeva a una persona nera; probabilmente c’erano giovani neri che non credevano di potercela fare. Ma vedermi lì poteva incoraggiarli a scrivere i libri che desideravo con tutta me stessa leggere».

In questa frase, solo apparentemente banale, è possibile cogliere le due pulsioni dalle quali prende le mosse ogni progetto narrativo di Morrison: la consapevolezza e la ricerca di una rappresentatività, il desiderio di dar voce a generazioni di donne nere ridotte al silenzio o all’irrilevanza, ma anche la volontà, ben più semplice, di scrivere solo ciò che si desidererebbe leggere e che non sempre è dato trovare sul mercato letterario. Ed è forse nella coesistenza di queste due volontà, nella ricerca di un perfetto punto di sintesi tra di esse, che è possibile cogliere il senso ultimo della scrittura di Morrison, del suo intero percorso intellettuale. Un percorso che è la stessa Morrison a sintetizzare perfettamente quando si oppone al sentire comune in base al quale «se un’opera d’arte ha un minimo di impatto politico, allora è corrotta. Io penso esattamente il contrario: è corrotta se non ce l’ha»; perché «l’arte migliore è politica e si deve riuscire a renderla al contempo indubbiamente politica e irrevocabilmente bella».

Per realizzare questo obiettivo, Morrison unisce a una programmatica limpidezza dello sguardo e della visione un sincretismo straordinario, nel quale convergono e si armonizzano la potente cultura orale trasmessale dalla famiglia e dalla comunità di riferimento e una conoscenza approfondita dell’intera tradizione letteraria, afroamericana e non. Di questo complesso lavoro di collazione e reinvenzione, che in capolavori come Canto di Solomon, Beloved e Jazz trova la sua espressione più compiuta, ci viene offerta una sintesi accurata grazie al Meridiano Toni Morrison che Mondadori le ha finalmente dedicato, a cura di Alessandro Portelli e accompagnato, oltre che da una magnifica introduzione dello stesso Portelli, da uno scritto di Marisa Bulgheroni e da una cronologia particolarmente ricca di informazioni e dettagli, redatta da Chiara Spallino Rocca (pp.1664, € 80,00).

Il primo, grande merito del volume, che ospita sei degli undici romanzi di Morrison, va rintracciato nelle traduzioni. Vengono variati, rispetto alle edizioni originali – e sempre in modo più che giustificato – ben tre titoli: L’occhio più blu al posto dell’Occhio più azzurro, «per il rimando fonico al blues, latente nel libro»; Beloved, titolo «meno enfatico e più puntuale del precedente Amatissima»; Canto di Solomon invece che Canto di Salomone, al fine di «identificare in maniera appropriata il personaggio dell’omonimo canto al centro del romanzo».

Quanto alle traduzioni, Chiara Spallino firma tre versioni completamente nuove, e davvero eccellenti, di L’occhio più blu, Sula e Beloved, mentre Franca Cavagnoli ha proceduto a una revisione rigorosa e approfondita delle sue traduzioni di Canto di Solomon e di Jazz. Resta dunque sostanzialmente invariata la sola traduzione del Dono, firmata da Silvia Fornasiero. In queste versioni, i romanzi di Morrison – qui sono presenti i titoli maggiori, con la sola eccezione di Paradiso – si dispiegano in tutta la loro ricchezza di temi e riferimenti, disegnando una traiettoria davvero unica. Se nell’Occhio più azzurro e in Sula predomina uno sguardo al femminile che prende le mosse dal microcosmo del nativo Ohio – una «letteratura di villaggio», per riprendere la felice espressione richiamata nel saggio di Portelli, però sempre fondata sulla consapevolezza che l’universale si coglie nello specifico – in Canto di Solomon Morrison abbraccia una prospettiva maschile, e dà il via a quel processo di immersione nella storia e nelle leggende della schiavitù che troverà in Beloved la sua mirabile sintesi.

Un impegno necessario
E se Jazz rappresenta a tutt’oggi il culmine di uno sperimentalismo e di una frammentazione narrativa tutta giocata sul filo della memoria e dei suoi meccanismi più intimi, Il dono costituisce una riflessione dolce e feroce al tempo stesso sul sostrato di schiavitù e oppressione sociale che lo sguardo bianco e americano ha tentato di nascondere dietro i propri miti fondativi.
Al lettore non rimane allora che «surfare» tra le parole di Morrison e il ricco e rigoroso apparato critico che le accompagna, e riscoprire così in tutto il suo valore una scrittrice straordinaria, capace di rilanciare quella nozione di «intellettuale impegnato» cui troppo spesso si tende a guardare con imbarazzo, senza comprenderne invece l’assoluta necessità storica.