Non è bastato cambiare il sistema dei conti nazionali, inserendo 59 miliardi di euro in più derivanti dai proventi del traffico di droga, della prostituzione e del contrabbando di sigarette e di alcol, per fermare la caduta libera del Prodotto Interno Lordo. Ieri l’Istat ha confermato ciò che il governo preferirebbe non vedere: l’Italia è in stagnazione e il suo Pil è crollato nel secondo trimestre del 2014 a 385,776 miliardi di euro, il valore più basso dal primo trimestre del 2000, 14 anni fa. Il paese è stritolato in un blocco produttivo e di consumi fatali. Il Pil chiude nel secondo trimestre a -0,2%, mentre il dato su base annua è stato rivisto in lieve peggioramento a -0,3%. Una catastrofe per gli aruspici al governo dell’economia che in una memorabile conferenza stampa a metà aprile, in sede di presentazione del Documento di Economia e finanza (Def) sostennero che il Pil 2014 avrebbe registrato una crescita dello 0,8%. Era una previsione «seria» e al ribasso così disse il presidente del Consiglio Renzi. Un’inquietante catastrofe previsionale dovuta ad una forte capacità di auto-suggestione, forse indotta dalle infondate previsioni della Bce e dell’Fmi impegnate in quel momento in una danza della pioggia. Peggiora anche il rapporto deficit/Pil nel primo semestre 2014, salendo al 3,8% (era al 3,5%), mentre la pressione fiscale è calata al 40,7%, giù di 0,5 punti percentuali su base annua (era al 41,2%).

I consumi delle famiglie seguono la discesa agli inferi dei dati macroeconomici: il potere di acquisto è tornato a scendere dell’1,4% rispetto al trimestre precedente e dell’1,5% su base annua. Il dato semestrale rivela una stasi fatale. La crescita è zero. La crisi è così feroce da avere spinto anche a erodere i risparmi privati di cui il nostro paese mantiene un primato riconosciuto. Misurata al netto della stagionalità, la propensione al risparmio delle famiglie è in diminuzione di 1,4 punti rispetto al trimestre precedente e di 1,8 punti su base annua. Se le famiglie non stanno bene, il capitale non se la passa meglio. La quota di profitto delle società non finanziarie nel secondo trimestre è diminuita al 40,0%. È il valore più basso almeno da 15 anni, cioè dal 1999, data d’inizio delle serie storiche trimestrali. Anche il tasso d’investimento è al minimo storico: si è fermato al 20,4%.

Dietro questi numeri che funestano le notti insonni delle famiglie e le ore sofferte del governo, sempre pronto a invocare «crescita» e detassazione a destra e a manca, ci sono persone. I ricercatori dell’Istat che, in silenzio, ogni giorno, in maniera inappuntabile elaborano, organizzano e presentano i dati nel consueto briefing con la stampa nella sede dell’istituto nazionale di statistica in via Cesare Balbo a Roma. Anche ieri, per la terza volta, i dati non sono stati presentati nella sala perchè i 372 ricercatori precari dell’Istat l’hanno occupata. Per poi fare una manifestazione di protesta fuori dall’istituto. Il prestigioso ente, come molti altri che in Italia si dedicano alla ricerca, si regge in piedi grazie al lavoro di centinaia di donne e uomini con un contratto precario.

Da un anno conducono una battaglia per la stabilizzazione del loro contratto. Parliamo di persone specializzate che vivono in una condizione di incertezza esasperante da anni. I loro contratti scadono tra cinquanta giorni e di rinnovo non si parla ancora. «L’Istat ha deciso di attestarsi su una proroga annuale – sostiene il coordinamento dei precari- al termine della quale si prospetta l’espulsione del personale precario selezionato tramite concorso pubblico, formato e inserito in maniera strutturale nei processi ordinari».