In attesa di celebrare il 60esimo anniversario dell’inaugurazione di Disneyland (17 luglio 1955), è in sala un omaggio non solo a una delle sue attrazioni storiche, la futuribile Tomorrowland, ma a uno dei progetti/utopie più cari all’inventore della catena di parchi a tema più famosa del mondo. Che pochi se ne siano accorti non sorprende: con spietatezza simile a quella con cui, tre anni fa, già prima dell’uscita in sala, aveva «scaricato» John Carter, lo studio di Topolino ha preso discretamente le distanze da uno dei suoi titoli più attesi dell’estate – la foto e il nome di Walt Disney sono ancora presenti in un trailer giapponese ma qualsiasi menzione del padre fondatore all’interno del film è altrimenti scomparsa.
Come John Carter, diretto da Andrew Stanton, anche Tomorrowland porta la firma di uno dei grandi geni della Pixar, Brad Bird, autore del retrofuturista Il gigante di ferro, di Mission Impossible: Protocollo fantasma e, per la compagnia di Lasseter, di Gli incredibili e Ratatouille.

Come John Carter (263 milioni di budget, solo 30 di incassi al primo week end d’apertura), Tomorrowland si annuncia come un disastro notevole (175 milioni di budget, 32 all’opening. In Italia è stato distribuito durante Cannes quindi praticamente non recensito), ma come il kolossal fantasy di Stanton (un film incomprensibile, ma di struggente bellezza visiva) anche il nuovo lavoro di Bird è un disastro ambiziosissimo e molto affascinante.

L’attacco sul primo piano di George Clooney, con il look abbacchiato, è l’escamotage per mandarci indietro nel tempo, alla World Fair del 1964, a New York, quella dove (come abbiamo visto nel film di Tim Burton Big Eyes) il critico d’arte del New York Times polverizzò i bimbi con occhioni e tristi che Margaret Keane aveva dipinto per simboleggiare il domani; e quella per cui lo stesso Walt Disney aveva progettato alcune importanti attrazioni: un Carousel of Progress sponsorizzato dalla General Electric, un enorme Lincoln animatronico finanziato dallo stato dell’Illinois, una ride acquatica con bambini animatronici presentata dalla Pepsi-Cola e una Magic Skyway della Ford Motors.

 

Cogliamo uno squarcio di quelle elaborate celebrazioni del futuro (dopo la fiera rientrate dietro ai cancelli di Disneyland o Disney World, e che dovevano essere tasselli per una città dell’avvenire, se Disney non fosse mancato due anni dopo) quando il piccolo Frank Walker (Clooney da bambino) si reca alla World Fair con uno zainetto volante di sua invenzione. L’oggetto non funziona come dovrebbe, e lui perde la gara a cui era iscritto, ma gli giova l’attenzione di Athena, una bambina seria seria (l’inglese Raffey Cassidy), che gli regala una spilla che lo trasporterà, da questo parco a tema del futuro costruito alle periferia di Queens, a Tomorrowland, una dimensione parallela disegnata e governata all’insegna di tutti effetti positivi della modernità, distillati – scopriremo in un anfratto della Tour Eiffel che ricorda il sottomarino di 20.000 Leghe sotto i mari e la stazione dei treni di Hugo Cabret – dalle menti di Jules Verne, Thomas Edison, Albert Einstein, Nikola Tesla e (almeno nella sceneggiatura originale del film, firmata da Bird e Damon Lindelof) di Walt Disney.

Su sfondi meravigliosi e rassicuranti secondo il gusto retro della sci-fi steampunk, e attraverso un complicato, spesso non riuscitissimo, andirivieni tra passato, presente e Tomorrowland, con l’aiuto di Athena (che si rivela essere un robot), di Frank (nella versione Clooney: un adulto cinico e disilluso che odia il futuro) e di Casey (Britt Robertson), teen ager quasiterrorista, per impedire la distruzione delle piattaforme di lancio alla Nasa di Cape Canaveral che sta per licenziare suo papà, Bird a Lindelof tessono il loro omaggio all’utopia disneyana della Experimental Prototype Community of Tomorrow (ridimensionata, dopo la scomparsa di Walt, nell’Epcot Center di Disney World) e a un’umanità che crede in una versione solare, dinamica e creativa del processo tecnologico. In quel senso, immaginate Tomorrowland come l’esatto contrario del pianeta di sedentari, lobotomizzati, grassoni in cui si ritrova il robottino Wall-e. E Tomorrowland come l’antidoto della distopia di Hunger Games o Divergent. 

Come nei Sixties, quando l’America andava sulla luna e il simbolo del nucleare era benevolo quasi quanto uno Smile, il futuro è una promessa, o almeno basta pensarlo così, in questo kolossal, convinto, e molto scombinato che fa pensare ai film d’avventura prodotti dalla Disney negli anni ’50, anche se include la strana love story tra un uomo e una bambina meccanica. Alla fine, come in una pubblicità interracial alla We Are The Children, le spilline servono e reclutare giovani geni «ottimisti», che non si facciano scoraggiare dallo spettro della catastrofe ecologica, o della guerra perenne. Più confuso, mancato, che superficiale o reazionario (come lo hanno trovato alcuni critici Usa) Tomorrowland inciampa e si aggroviglia nel suo (very) high concept, un po’ come John Carter e, in un certo senso, anche l’ultimo cartoon Pixar, Inside Out. Il che ne fa il fallimento nobile di un’idea importante.