L’onda lunga delle proteste per l’omicidio di George Floyd ha raggiunto anche il mondo della musica. Martedì scorso si è svolto il Blackout Tuesday, uno sciopero virtuale di artisti ed etichette che in tutto il mondo hanno pubblicato sui propri account social una foto nera, annullando l’uscita di dischi e singoli. Iniziativa fatta propria anche da molti esponenti del settore musicale italiano. Un mondo che, a sentire Tommy Kuti, conosce tuttavia un’ipocrisia di fondo. «Mi ha fatto arrabbiare un post della Universal, la mia vecchia etichetta, che ha condiviso una citazione di Martin Luther King. La mia osservazione è che, semplicemente, se si vuole migliorare davvero la questione del razzismo in questo paese, sarebbe bello che realtà come questa diano più possibilità ai ragazzi di seconda generazione. In Italia è molto scarsa la rappresentazione della diversità». Tommy Kuti, arrivato con la famiglia dalla Nigeria quando aveva solo due anni, è cresciuto a Castiglione delle Stiviere (in provincia di Mantova), dove ha cominciato a fare musica da giovanissimo. Dopo essersi laureato a Cambridge, forma a Brescia il primo collettivo con altri rapper, dal nome Mancamelanina (l’ironia non gli è mai mancata). Grazie alla manager Paola Zukar, Tommy Kuti entra in Universal, «dove in realtà ho avuto un’esperienza davvero positiva. Ma ricordo benissimo che in tutta l’etichetta l’unica persona chiaramente nera ero io. In Italia c’è davvero un problema di razzismo. Tanto è vero che tra tutti gli artisti hip hop mondiali, l’unico che viene qui e riempie uno stadio è Eminem. Che è bianco». Afroitaliano, singolo del 2017 nel cui video appare anche Fabri Fibra, rappresenta una sorta di manifesto delle seconde generazioni. È il momento in cui la trap sta esplodendo: è un genere nuovo, che fa da catalizzatore, la perfetta colonna sonora per le identità mixed che vanno cercando una voce che ancora non c’è. Emerge, nella scena musicale nazionale, un’intera realtà di nuovi italiani, da Ghali a Maruego, da Laioung a Chadia Rodriguez, da Mudimbi che partecipa a Sanremo nel 2018 fino a Mahmood, che il festival lo vince nel 2019. «Ci sono molti artisti di seconda generazione, la cui origine straniera tuttavia non è così chiara, evidente. Mentre per una persona come me, non c’è alcun dubbio che io venga dall’Africa. Esiste anche un problema di colorismo».

CON «COLOURISM» si intende la discriminazione basata sul colore della pelle anche tra persone della stessa etnia. È un tema spesso discusso negli Stati uniti ma anche in Brasile ad esempio, paese dal marcato passato coloniale. Questioni che sembrano lontane anni luce, tuttavia, dal dibattito italiano. «Dobbiamo ammettere che le difficoltà che deve affrontare una persona nera come me, sono ancora maggiori rispetto a quelle che incontra una persona con una tonalità di pelle che è più vicina a quella di un bianco. Le persone con la pelle più chiara hanno maggiori possibilità e, soprattutto, hanno maggiore rappresentazione». Nel mondo dell’intrattenimento, in musica come nello spettacolo, persistono infatti degli stereotipi in cui le persone nere sono relegate, «quando in verità ci sono un’infinità di storie diverse e di esempi di normalità». Tommy Kuti, che nel frattempo è diventato anche un volto televisivo (ha partecipato a Pechino Express) e ha pubblicato il libro autobiografico Ci rido sopra (uscito per Rizzoli nel 2019), continua a dedicarsi alla musica. In attesa del suo nuovo disco solista, ha dato forma infatti a un nuovo progetto collettivo, Equipe54, insieme a Fula, Roy Raheem, Slim Gong, Yank, tutti autori afroitaliani.

«LA MUSICA italiana è molto legata alla tradizione. A volte però ho l’impressione che in questo paese si faccia fatica a guardarsi attorno. Io spero che la canzone italiana venga arricchita con nuovi influssi, con nuove incursioni culturali. Vorrei più diversificazione nella musica. E mi auguro che i ragazzini, possano incontrare sempre di più artisti di varie estrazioni sociali ed etnie».