Tomàs è l’ultimo romanzo di Andrea Appetito, pubblicato da Effigie (pp. 170, euro 15). La scelta di un semplice nome proprio come titolo è significativa in un testo che racconta un’unica storia a partire dai diversi punti di vista dei protagonisti, riuscendo a svelare, in ogni diverso capitolo, un’altra verità. Tomàs è il personaggio che funge da raccordo tra le vite di tutte le voci narranti e il solo – tra le figure coinvolte – a non offrirci mai la sua versione dei fatti.

Come in molti altri romanzi che vengono definiti «apocalittici» – raccontano cioè la fine inesorabile di una civiltà o più genericamente di un gruppo umano – anche il libro di Andrea Appetito non dà coordinate geografiche né temporali. Al centro dell’ecatombe che il romanzo narra c’è una città che fa parte di una «federazione corrotta», c’è un porto che è stato chiuso in nome di interessi incomprensibili agli operai che, dopo avere lottato talvolta fino alla morte per i loro diritti, hanno perso il proprio lavoro e il futuro.

In questo contesto storico così sfumato, a fissare i contorni della storia sono i sentimenti dei personaggi che raccontano la loro vita, quasi che con la precisione dei loro resoconti dei fatti potessero sopperire alla vaghezza di una legge e di un potere che li supera e li ignora. Maggiore, infatti, è nel romanzo l’indifferenza delle forze armate, per esempio, del potere, rispetto al destino della popolazione della città, più forti sono le relazioni che l’autore tesse fra le sue voci narranti, come se volesse mostrare il paradosso di un’umanità che, nel suo progresso distruttivo verso la ricchezza come valore in sé, non è ancora diventata incapace di amare, di nutrire un senso di attaccamento, come di rabbia, nei confronti del prossimo.

Tomàs, infatti, nella sua de-contestualizzazione, nel suo afflato simbolico, è un romanzo famigliare: rivela le dinamiche complesse e imprevedibili che si possono intessere fra persone che hanno legami di sangue, o fra giovani amanti, fra coppie di sposi che si trovano a condurre una vita insieme, senza smettere di considerare l’altro né più né meno che un estraneo. Segnala la piccolezza devastante di un sentimento come la vendetta e, accanto, la grandiosità di chi sa sacrificarsi per un ideale politico, per salvare «la sua gente», per dare corpo ai diseredati.