In un tempo in cui è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo, in un tempo cioè in cui il motto thatcheriano «There is no alternative» rappresenta lo snodo centrale dei meccanismi psicopolitici di soggettivazione, la pubblicazione dell’antologia di scritti di Tolstoj Il rifiuto di obbedire (eléuthera, pp. 192, euro 16) va salutata come un indispensabile balsamo antidepressivo.
Composto da sedici saggi selezionati dal curatore Francesco Codello, vi è un fil rouge che attraversa la produzione politica del grande romanziere russo. In questi testi Tolstoj si misura con l’orrore del presente – suo, ma ancora anche nostro, semmai solo peggiorato – per denunciare la violenza del potere in tutte le sue manifestazioni: dall’organizzazione statale alla guerra, dal colonialismo all’oscena condizione degli animali non umani nella nostra società.

Nell’introduzione il curatore si domanda se Tolstoj possa o meno essere annoverato tra i pensatori anarchici. La sua ferma opposizione allo Stato e l’ingiunzione a mettere in atto fin da subito comportamenti che prefigurino la società in cui si vorrebbe vivere militano a favore di una risposta affermativa. D’altro canto, però, la sua fede religiosa e la sua ingenua enfasi sull’amore universale sembrano indicare diversamente. Ma, che sia anarchico o meno, è certo che il Tolstoj politico di Codello ricorda l’intellettuale riluttante di Rovatti, un «intellettuale critico e autocritico» capace di svolgere «un lavoro ai fianchi» dei dispositivi di potere, «denunciando le chiusure senza mai gettare la spugna».

LE POSIZIONI DI TOLSTOJ sono spesso discutibili e datate. Si pensi, ad esempio, alla sua fiducia nella razionalità e bontà naturalmente inscritte nell’animo umano che non potranno che portare a un inarrestabile e quasi automatico progresso sociale. Oppure alla sua versione semplificata di che cosa sia il potere, un potere che, esercitandosi solo verticalmente, è privo di quella complessità che il pensiero critico, soprattutto postcoloniale e transfemminista/queer, metterà successivamente in luce. Ciononostante, in questi saggi brillano intuizioni sfolgoranti che anticipano di decenni alcune delle elaborazioni più rilevanti della riflessione politica contemporanea. Si pensi, ad esempio, alla critica serrata ai meccanismi di assoggettamento messi in atto da quelli che Althusser chiamerà «apparati ideologici di Stato». Oppure alla necessità di svolgere un incessante lavoro di auto-soggettivazione che prelude alla cura di sé dell’ultimo Foucault o all’ascetismo atletico del devi cambiare la tua vita di Sloterdijk.

L’ANTOLOGIA, insomma, è percorsa da una lucida analisi della miseria di un presente che si estende fino a noi, miseria secondaria a «un ordinamento sociale» che orbita attorno al «cerchio della violenza» – «l’intimidazione, la corruzione, e l’ipnosi fanno i soldati, i soldati danno il potere, il potere dà il denaro con cui si comprano i funzionari e si reclutano i soldati» –, e dall’inestinguibile anelito alla libertà e all’eguaglianza che, per Tolstoj, deve muoversi oltre i confini della nostra specie – dell’attuale sfruttamento degli animali «l’umanità futura parlerà con la medesima repulsione con cui noi oggi parliamo della schiavitù e della tortura».
Tolstoj aspira, con un ardore che dopo un secolo non ha perso nulla del suo mordente, a che «tra gli uomini si instauri una vita buona». Se «le condizioni del nuovo ordine di cose non possono esserci note», Tolstoj non ha dubbi che questa creazione debba passare attraverso una negazione, attraverso il rifiuto di obbedire. E così, leggendo questa antologia, la nostra mente continua a tornare all’ostinato «Avrei preferenza di no» di Bartebly, al ritornello dello scrivano di Melville che ci smarca dalle dinamiche di una sempre più incontrollata «volontà di nulla», come scrive Deleuze a proposito della sua potenzialità rivoluzionaria. Fantasticherie irrealizzabili? No, risponde ovviamente Tolstoj, «non credete agli uomini che vi diranno che le vostre aspirazioni sono solo irrealizzabili fantasticherie».