«Il presente post-coloniale va analizzato insieme agli effetti tuttora esistenti del colonialismo per comprendere le contraddizioni del liberalismo europeo, parzialmente fallito perché non ha realizzato i suoi obiettivi concettuali, ovvero libertà e uguaglianza per tutti».

Un passo indietro per guardare ai fenomeni che oggi spaventano l’Europa: Humeira Iqtidar, ricercatrice al King College di Londra e esperta di Islam politico, sposta l’analisi sull’approccio eurocentrico all’Islam: «L’idea di tolleranza è divenuta, erroneamente, base concettuale del liberalismo. Ma tolleranza non coincide con integrazione, è mera accettazione, comportamento passivo e non attivo. Questo conduce, all’interno, a parlare di ‘evoluzione’ in riferimento alle comunità musulmane, sottintendendo uno stadio inferiore di sviluppo rispetto a quelle europee; all’esterno conduce al sostegno occidentale a regimi laici anche se dittatoriali. Come in Egitto o in Pakistan, dove si sostengono regimi non islamisti perché si considera l’Islam politico un pericolo intrinseco, seppur sia parallelo al modello democristiano europeo».

L’abbiamo incontrata a margine del convegno «Confini e oltre: reinventare l’Europa» dell’Istituto Svizzero.

In Gran Bretagna e in Europa che significa integrazione?

Si guarda all’Islam come soggetto estraneo all’Europa, sebbene i musulmani siano parte integrante del Vecchio Continente da secoli. Quella musulmana è etichettata come comunità esterna che destabilizza, dimenticando i processi coloniali che sono stati subiti da popoli interi per almeno 4-5 generazioni. Il colonialismo produce effetti ancora oggi perché interiorizzato dalle comunità musulmane e perché ha radicato l’idea di estraneità dell’Islam rispetto all’Europa.

La campagna elettorale britannica si è incentrata su sicurezza e radicalizzazione. Si è assistito a un abbassamento nel livello di integrazione delle seconde e terze generazioni nate rispetto alle prime generazioni di migranti?
Non esiste una risposta unica. Le seconde e terze generazioni di origine musulmana non sono integrate nella società britannica per ragioni diverse: le persone coinvolte in attacchi hanno subito razzismo istituzionale o sociale, sono spesso conosciute dall’intelligence per reati minori, in alcuni casi hanno storie di instabilità mentale. Focalizzarsi solo sull’eredità musulmana è importante ma limitante.

È importante perché sono loro che dichiarano di farlo per ragioni religiose. Ma allo stesso tempo tali azioni – definite dall’aggressore come dovere religioso – sono un’interpretazione della religione individuale e minoritaria rispetto a quella della comunità islamica nazionale.

Infine va valutato il contesto. Viviamo in un periodo di glorificazione e mitizzazione della violenza a livello globale, mediatico e statale: la violenza della destra suprematista, quella che ha ucciso Jo Cox e quella militare che Londra porta avanti in Medio Oriente. La guerra al terrore, fondata sulla polarizzazione delle parti (le democrazie liberali contro l’Islam), ha effetto su individui che vivono esclusione istituzionale e socio-economica.

Va tenuto conto anche delle responsabilità occidentali nell’accendere conflitti, esportare armi, sostenere regimi impegnati nella radicalizzazione?

L’Occidente crea attivamente instabilità politica e sostiene regimi che trasferiscono armi e uomini a gruppi pericolosi ideologicamente e militarmente. Ma in tal senso la responsabilità è collettiva: i leader governativi non vengono mai puniti alle elezioni per il ruolo che hanno nell’accensione di certi conflitti.

È vero che stavolta in campagna elettorale a Theresa May e al suo partito è stato chiesto: perché Londra continua a vendere armi all’Arabia Saudita, il regime più dispotico dell’area, forse del mondo? Dopo l’attacco al London Bridge, May ha detto: ora è abbastanza. Sì, è vero, ma tu cosa fai per fermare questa situazione?

Per questo la campagna elettorale, nelle sue ultime fasi, è stata interessante: sono emerse domande nuove. Corbyn ha chiaramente detto che la guerra al terrore ha fallito, dimostrando un coraggio estremo per un leader politico e un potenziale premier.