Palermo, Natale 1130: il duca Ruggero II si avvia alla cattedrale per essere incoronato re di Sicilia, accompagnato da un corteo di cavalli addobbati con finimenti d’oro e d’argento, mentre il suo Palazzo viene «tappezzato di drappi» e ricoperto di tappeti multicolori. Pochi anni dopo, per le cerimonie regali gli viene confezionato da un atelier (tiraz) arabo un sontuoso mantello rosso ricamato in fili aurei con figure simboliche di animali (leoni degli Altavilla rampanti su cammelli «musulmani») e vegetali (la palma-albero della vita), decorato da iscrizioni cufiche di stile poetico con datazione islamica (anno 528, cioè 1134). Quel tessuto unico al mondo, trafugato poi in Germania da Enrico VI, genero «postumo» di Ruggero, finirà a Vienna, dove è stato usato per secoli come mantello dell’incoronazione e dove si può ancora ammirare fra i tesori della Kaiserliche Weltliche Schatzkammer. Uno dei segni più preziosi dell’autonomia anche culturale della Sicilia del XII secolo viene espropriato come paramento del Sacro Romano Imperatore che ne ignora perfino la provenienza.
Oggi il crogiuolo di civiltà nel Sud Italia normanno continua a esercitare un fascino irresistibile presso gli storici soprattutto esteri, come testimoniano il Roger II of Sicily della Hayes (2020), la raccolta di Takayama Sicily and the Mediterranean in the Middle Ages (2019), la ristampa di The Normans in the South, 1016-1130 di Norwich (2018), i contributi di Norman Expansion: Connections, Continuities and Contrasts curati da Stringer e Jotischky (2016), il reprint di The Norman Conquest of South Italy di Brown (2015) e un diluvio di altre narrazioni su quello che continua ad apparire un fenomeno unico: la quasi casuale eppure inarrestabile conquista del Meridione italiano, diviso fra residui dei ducati longobardi, province bizantine ed emirati musulmani, da parte di un esiguo gruppo di guerrieri normanni, combattiva diramazione del ceppo che pochi anni prima aveva sconfitto gli anglosassoni in Inghilterra cambiando per sempre la storia d’Europa.
Ovviamente anche in Italia non sono mancate, sia pure con minore foga, sintesi adeguate: fra le altre il Ruggero II di Sicilia di Houben (1999) e Ruggero II: il Drago d’Occidente di Tocco (2011). A consuntivo di tanto impegno giunge ora il vivace Ruggero II di Glauco Maria Cantarella (Salerno Editrice, pp. 304, e 22,00), il quale unisce al dibattito specialistico con una parte della storiografia precedente un andamento disinvolto e talora polemico che ne insaporisce la lettura, speziando l’analisi attenta delle fonti plurilingue con rimandi a opere polacche, proverbi yiddish e citazioni di Tomasi di Lampedusa, Churchill e Wilde, senza resistere alla tentazione di correggere quando possibile gli autori di qualche «sfondone» storico o terminologico, anche se su questi terreni scivolosi nessuno è perfetto.
Tanto interesse si spiega col fatto che Ruggero II è il fondatore dell’entità statale «di più lungo periodo nella storia d’Italia dopo la fine dell’impero romano», un dato di enorme importanza che merita sempre una rivisitazione. Questa della Salerno Editrice è anzitutto biografica e segue passo passo le fonti primarie, che in latino sono Alessandro abate di Telese e Falcone notaio Beneventano per la prima parte della vita, e per la seconda il Chronicon interpolato di Romualdo Salernitano e lo pseudo-Ugo Falcando, qui per brevità chiamato Falcando e un tempo identificato da Cantarella con il prelato Riccardo Palmer. Ma non risparmia ampie escursioni su testi in lingue diverse. Quando si tratta di corte normanna infatti occorre fare i conti con tre lingue usate a vario titolo nella documentazione: arabo, greco e latino (mentre il francese era probabilmente la lingua d’uso familiare), espressioni della molteplicità etnica, culturale e religiosa dei funzionari e degli interlocutori del Regno. E per i testi arabi non si accontenta delle venerabili traduzioni di Michele Amari ma le mette a confronto con altre, rivelando talora passi «saltati» da Amari.
Base metodologica è l’assunto che «le fonti hanno sempre ragione, non è il caso di fargli dire quello che non dicono e che non si sarebbero mai sognate di dire», dichiarazione apparentemente ovvia ma necessaria in epoca di linguistic turn (ossia di decostruzione di ogni fonte come fiction), perché definisce una rigorosa adesione al significato specifico dei termini latini. L’autore ne dà prova anche in qualche intervento traduttorio su passi controversi, che altri potranno interpretare diversamente ma che hanno il merito di riportare l’attenzione sui testi. Questo non impedisce di smascherare le intenzioni propagandistiche delle fonti, mettendole sapientemente a contrasto su eventi che hanno la fortuna di essere narrati da più di un autore.
Valorizzare le narrazioni d’epoca consente anche di restituire centralità al metodo principale con cui i normanni si fecero largo fra le autonomie e ribellioni locali: i massacri della popolazione civile, perpetrati con quella brutalità che Cantarella definisce «una strategia del terrore». E aiuta a contestualizzare fonti legislative pur incoerenti come le cosiddette Assise «di Ariano», dove prende forma giuridica il nuovo assetto politico. Le varie etnie conservano il diritto di regolarsi secondo le proprie consuetudini purché non confliggano con le delibere del re, che nei documenti arabi è chiamato malik, «re» o «signore» (privo di autorità religiosa), o con altri titoli derivati dagli usi della monarchia fatimide d’Egitto come al-mu’tazz bi-‘llah e al-mu’azzam, cioè «il potente per grazia di Allah» e «il sublime» (ma esistono traduzioni diverse), mentre le fonti ostili degli imperi e, in alcune fasi, del papato lo definiscono «tiranno», cioè usurpatore.
La commistione etnico-culturale si riflette così nella compresenza, tutto sommato ordinata ed efficiente, di gerarchie di provenienza anche linguisticamente disparata, con prevalenza dell’eredità bizantina: baiuli, taumarchi, catepani, strateghi, giudici e diwan (qui una sorta di ministero). Passi suggestivi riguardano l’epopea delle spedizioni d’Africa per eliminare la pirateria e controllare il traffico del Mediterraneo, e l’effimera ma impressionante conquista di isole e territori adriatici dell’impero bizantino, che arriva a saccheggiare Tebe e imprigionare le «donne più belle ed eleganti», come riferisce Niceta Coniata: si crea così per breve agglomerazione incrociata un virtuale network normanno che va da Norvegia, Inghilterra e Francia all’Italia alla Grecia e all’Africa.
Manca invece ancora un quadro adeguato dello straordinario momento socio-culturale rappresentato dal regno, e manca perché le fonti documentarie e narrative ci informano soprattutto sugli eventi legati al potere, guerre e cambi di governo, ma dicono pochissimo sul vissuto personale, sul clima culturale e sulla produzione artistica, letteraria, musicale che vide fiorire nel Sud Italia un irripetibile laboratorio di innovazioni. Certo è che sotto Ruggero II il nobile maghrebino Al-Idrisi redige il suo celebre Libro del Re, con mappatura geografica e antropologica dell’orbe terrestre difforme e nuova rispetto alle mappae mundi latine (perfino razzista, in senso antieuropeo), ed è sotto i normanni che fioriscono i versi splendidamente tradotti in Poeti arabi di Sicilia (Mondadori 1987). Molto di più si potrebbe capire includendo nel panorama la letteratura ebraica della Puglia, i testi di poesia latina, la produzione di manoscritti greci, mentre qualcosa è stato fatto sulla fioritura di capolavori artistici e architettonici.
Ma Cantarella ci mette in guardia dalle idealizzazioni e sottopone a lucida verifica il mito della «tolleranza» normanna verso le etnie e culture non franco-latine, ridimensionato da Houben già nel 1993 ma celebrato ancora nel 2019 da Takayama e nel 2017 da Birk: lo fa risalire, sia pure in via di paradosso ipotetico, alla «indifferenza religiosa per la quale più di due secoli prima Rollone, in Normandia, si era convertito al cristianesimo e contemporaneamente aveva fatto sacrificare i cristiani agli dèi nordici». Cantarella preferisce parlare di «convivenza» o «convenienza», con terminologia meno moralistica e più attenta alla stratificazione dei poteri: gli eunuchi responsabili della sicurezza del Re, esponenti delle grandi famiglie di corte, erano quasi tutti copertamente musulmani, mentre l’ammiraglio in capo era bizantino, il cancelliere Roberto di Selby e il cappellano Tommaso Bruno anglo-latini, i discorsi ufficiali erano in greco e, aggiungeremmo noi, la liturgia in greco e latino, compresi i celebri rotoli di Exultet con preghiere per Ruggero che andrebbero considerate fonti storiche a tutti gli effetti. Il sogno di questa Sicilia «magica», diffuso da visiting scholars come Pietro di Blois, si pone comunque all’origine di una coscienza dell’eccezionalità insulare che riemerge secondo Cantarella in Tomasi di Lampedusa e Vittorini, ma direi già in Pirandello e in Verga, solo pochi decenni dopo il passaggio ai Savoia dell’antichissimo Regno di Sicilia.