Il cinema musicale è pieno di titoli conosciuti e interessanti, cult movie che hanno saputo incendiare il cuore delle platee di tutto il mondo. Basti pensare al classico Grease del 1978, diretto da Randal Kleiser, e interpretato da John Travolta e Olivia Newton-John. Chi non lo conosce o, almeno una volta, accendendo la radio, non si è imbattuto in immortali pezzi come Summer Nights, Freddy, My Love, Greased Lightnin’, Look at Me, I’m Sandra Dee, e la corale We Go Together? Che i pezzi siano cantati da John Travolta, da Olivia Newton-John o dallo spettatore più stonato sotto la doccia, il risultato non cambia: il musical, qui nella sua forma più popolare, celebre e aurea, è patrimonio non solo culturale ma dell’umanità, è una parte di noi e del nostro vissuto di crescita al pari di Topolino, Dylan Dog, Bim Bum Bam o le ragazze coccodè. Lo stesso discorso si potrebbe fare con Hair di Milos Forman, con Moulin Rouge, Mary Poppins, Dancer in the Dark e Dirty Dancing, ma non è di musical occidentali che vogliamo parlare, e neanche di musical di poco successo, entrati inconsapevolmente nell’Olimpo degli «scult». I film che affronteremo sono invece successi a volte così stratosferici da riempire le sale, ma che non hanno saputo, o potuto, convincere oltre la loro terra d’origine, lo sfavillante Giappone. Vuoi per la distribuzione sciovinista, vuoi per i contenuti sconosciuti, siamo stati privati, un po’ come nei libri di storia delle elementari, di una cultura e di una creatività assolutamente meritevole di essere scoperta. Quindi stavolta, per citare Star Trek, arriveremo dove nessun uomo è mai giunto prima, una terra nella quale anche i samurai ballano e cantano, il mondo dei musical giapponesi.

GLI ALBORI
I primi film giapponesi musicali sono perle rare, ormai perse e mai più divulgate. Neanche della loro trama si sa molto, purtroppo. Il primo dovrebbe essere Komoriuta, del 1930 diretto da Shigeyoshi Suzuki con Eiji Nakano, uno degli attori di massima celebrità dell’epoca. Il «dovrebbe» è d’obbligo in una cinematografia mai completamente studiata in Occidente. Il regista avrà una carriera soprattutto concentrata negli anni Trenta, ma tra le sue opere più «recenti» spicca un bizzarro Tarzan nipponico del 1955, Buruuba, con un cast per lo meno bizzarro che unisce il Johnny Weissmuller giapponese, Yoshihiro Hamaguchi, medaglia d’argento per il nuoto nel 1952, con Woody Strode, futura star per i western di John Ford e Sergio Leone. La musica è firmata da Shiro Matsumoto, ma anche di questa partitura purtroppo non si sa nulla.
Meglio va per il successivo Enoken no seishun suikoden, diretto nel 1934 da Kajirô Yamamoto anche se è di difficile reperibilità. Si conosce molto bene la fama del regista, mentore dei registi Akira Kurosawa e Ishirô Honda, e artefice di ben 90 film dei generi più disparati. Enoken no seishun suikoden è incentrato sul suo protagonista, il famoso comico Ken’ichi Enomoto, qui appunto nel suo ruolo più celebre, quello portato a teatro più volte, la maschera di Enoken. Lo stile comico dell’attore mischia lo spirito tradizionale della commedia giapponese con lo slapstick americano, quello dei Charlie Chaplin o Buster Keaton, un mix che aveva decretato il successo e la fama del suo interprete, noto anche per le buone doti canore. Il film non impiegava però solo la star, ma tutta la sua troupe teatrale, con una narrazione strutturata attorno a scene che Ken’ichi Enomoto aveva interpretato con successo sul palco. Presentato come «l’attore comico numero uno del Giappone e la commedia musicale numero uno del Giappone», fu un successo effettivamente clamoroso. Nel 2013 il film fu proposto per la prima volta su grande schermo in Italia, nella rassegna Il cinema ritrovato, patrocinato dalla Cineteca di Bologna: una copia da 35 mm di ritrovato splendore. Enoken no seishun suikoden si rivela, anche agli occhi smaliziati degli spettatori moderni, una pellicola immortale, divertente e con momenti musicali incredibilmente folli, come un grandioso balletto in riva al mare. Le musiche ad opera di Kyôsuke Kami, orchestrali e veloci, sono capaci inaspettatamente di aderire alla difficile comicità nippoamericana, schizofrenica e nonsense, di Enomoto, scatenato fin dalle prime scene in un brano quasi a cappella, molto semplice e orecchiabile, debitore della musica popolare giapponese.

BIZZARRIE
Uno dei più bizzarri musical nipponici è senza dubbio Oshidori utagassen del 1939, diretto da Masahiro Makino e interpretato da Chiezô Kataoka, Ryôsuke Kagawa e Takashi Shimura. La storia è quella dell’amore tra una giovane, Oharu, e un samurai ronin, Reisaburo Asai. È una passione tormentata la loro visto che, per ripagare i debiti di gioco, il padre della ragazza, un ombrellaio, è costretto a vendere la figlia ad un signorotto locale senza scrupoli. Sotto un coté da dramma storico, più adatto forse ad una storia di chambara (la cappa e spada del cinema giapponese), vibra ed esplode una commedia musicale stralunata, dai toni da favola e con momenti buffi inaspettati. Molto prima di Zatoichi (2003) di Takeshi Kitano e del suo anomalo siparietto musicale finale, il genere storico avventuroso acquista un ritmo inaspettatamente musical. Il regista Masahiro Makino che, nel 1957, girerà uno straordinario film di samurai erranti, Rônin-gai, riprende i combattimenti come balletti, guarda ai grandi musical americani e costruisce complesse coreografie di ballo mentre. Dramma storico e jazz, ritmi tipici della canzone giapponese mischiati con il cinema di Fred Astaire e Ginger Rogers, rendono Oshidori utagassen un’opera strana ma affascinante che, come recita una recensione di imdb, «ti cattura per 69 minuti senza mai annoiarti».
Sempre Masahiro Makino è l’autore di due musical interessanti: il propagandistico Ahen senso, conosciuto anche come The Opium War, e Hanako-san, entrambi del 1943. Il più interessante è senza dubbio il primo, un dramma storico, ambientato in Cina, fortemente antibritannico, incentrato sulle vicissitudini di due fratelli coinvolti nella prima guerra dell’oppio, una diatriba che contrappose l’Impero cinese sotto la dinastia Qing al Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda. Già dalla copertina si possono intuire gli intenti: «Collabora, coopera, co…spira». La bizzarria è che anche gli inglesi, in questa pellicola, sono interpretati da attori orientali truccati, una cosa abbastanza destabilizzante e che dona all’opera un’aria di stranezza weirdo non calcolata. La straordinaria Setsuko Hara, da lì a poco interprete per Akira Kurosawa con l’intenso Non rimpiango la mia giovinezza, del 1946, è l’assoluta protagonista del miglior momento musicale della pellicola. Stavolta però l’opera non ha toni così smaccatamente allegri, ma si concentra soprattutto sul dramma di due persone comuni, due fratelli, coinvolti loro malgrado in una guerra più grande di loro. Efficaci le musiche di Ryôichi Hattori, briose e allo stesso tempo solenni, ma la colonna sonora ci riserva anche la sorpresa più bella: una danza di gruppo sulle note de Lo schiaccianoci di Pyotr Ilyich Tchaikovsky.
Meno convincente invece Hanako-san, soprattutto per il suo uso, a volte gratuito, di un greve umorismo in un contesto tragico come una Tokyo devastata dalla guerra. A meravigliare però sono le musiche di Seiichi Suzuki che mischiano ritmi della tradizione nipponica con melodie più occidentali. Ad essere emulato è il modello hollywoodiano di Busby Berkeley, un regista e attore statunitense, famoso per le sue opere musicali, azzardate, a tratti kitsch, piene di elementi scenici sullo schermo. Masahiro Makino riesce a donare, grazie a una regia moderna e movimentata, una tridimensionalità inaspettata nelle coreografie dei ballerini, una completezza nell’insieme di corpi che acquistano senso nella totalità, divenendo un unico insieme, armonico e aggraziato. Siamo davanti ad un’opera che anticipa di decenni il cinema di Baz Luhrmann, anche a livello emotivo ed estetico. Sono film, questi, girati in un bianco e nero che diviene colore intenso nella memoria dello spettatore, invisibili per noi Occidentali. Oggetti alieni e modernissimi che aprono le porte ad una rilettura interessante della storia del cinema. Il musical giapponese degli anni Trenta e Quaranta è l’arca dell’alleanza scoperta da Indiana Jones.

BIANCO E NERO
Quello che spicca nei musical, ancora rigorosamente in bianco e nero, degli anni Cinquanta sono le locandine: disegnate con vasta gamma di colori, ricordano le nostre, pittoriche ed emotive, de La scena illustrata o de La domenica del corriere. È proprio in questo periodo che il musical nipponico si evolve e cominciamo ad ascoltare musicalità più moderne, come per esempio il jazz, un genere così in voga nel periodo da apparire persino nei titoli dei film. È il caso di Seishun jazu musume (Giovane figlia del jazz) del 1953, diretto da Shûe Matsubayashi, regista specializzato in film di guerra patriottici, e interpretato, tra gli altri, da Miyoshi Umeki, prima asiatica a vincere l’Oscar, cinque anni più tardi, per Sayonara, al fianco di Marlon Brando. Il film, abbastanza scioccherello, vive soprattutto di momenti musicali azzeccati, ovviamente jazz, ad opera di Seitarô Ômori. Il film è quasi un precursore, come schema, dei nostri musicarelli più arrabbiati come per esempio Urlatori alla sbarra di Lucio Fulci.
Più compatto è Jazz on Parade 1954 nen: Tokyo Cinderella musume, ideale secondo capitolo di una serie, comprendente Musume jûroku jazz matsuri, sempre del 1954. e Jazz on Parade: Jazz musume kampai! del 1955, incentrati sulla scalata al successo di una giovane cantante interpreta da Izumi Yukimura. Il regista Umetsugu Inoue fu subito notato dalle case di produzioni perché capace di conferire un ritmo indiavolato ai suoi film musicali, forse l’autore più dotato in questo genere. Suoi anche That Wonderful Guy, del 1958 e Arashi o yobu yûjô, del 1959, quest’ultimo un film che mischia il musical con un filone che più tardi, grazie a registi come Kinji Fukasaku, avrà molta fortuna, quello dello yakuza movie. Un oggetto bizzarro, moderno e indecifrabile.
Jazz on Parade 1954 nen: Tokyo Cinderella musume, dalla locandina che ricorda un po’ La strada di Federico Fellini, ha toni molto più scanzonati. Divertente, a tratti commovente, vive su una colonna sonora vivace e orecchiabile, una regia gagliarda e la magnifica voce di Izumi Yukimura.
Spostandoci negli anni Sessanta, una delle migliori opere, questa volta, a colori, è Kurotokage (letteralmente Lucertola nera), sempre girato da Umetsugu Inoue e tratto da una pièce teatrale basata su un romanzo di Rampo Edogawa, l’Edgar Allan Poe giapponese. Il film è percorso da un corroborante spirito anarchico e folle, capace di annientare la quarta parete, una concezione di arte libera da ogni imbrigliatura commerciale che riporta alle produzioni Off- Broadway più selvagge. Umetsugu Inoue, nelle sue sperimentazioni, sembra riportare alle follie di Jesus Franco e ai suoi primi film cripto musicali come La muerte silba un blues. Un intrigo da puro poliziesco hard boiled (un investigatore sulle tracce di una ragazza rapita da un ladro), catapulta lo spettatore in un mondo colorato, pop, ricostruito a volte in studi teatrali, dove la musica, anche quando non è cantata, è una colonna sonora onnipresente che mischia Beethoven con tonalità jazz molto acide. Si respira un’aria di pazzia fumettistica che troveremo solo anni dopo nella serie Batman. Kurotokage con le sue inquadrature eccentriche, i grandangoli e i violenti contrasti tra luci e ombre, con i momenti lirici inaspettati, da Madama Butterfly pucciniana, è il punto di non ritorno del musical giapponese che abbandona il bianco e nero per irradiarsi di vivido colore.

A COLORI
Kurotokage, come detto, segna un’epoca, un prima e un dopo per i musical giapponesi, un modello imitato e mai del tutto compreso, uno spartiacque tra un’epoca passata, fatta di tonalità ancora classiche, magari ibridate, con un’era, di intuizioni e sperimentazioni, decisamente più moderna. Gli anni Settanta, buona parte degli Ottanta e dei Novanta sono segnati da opere a volte eccellenti che però mancano di un proprio carattere, come succedeva invece nel periodo anni Trenta-fine anni Sessanta. I prodotti di questo periodo sono più votati alla regia imitativa dei successi statunitensi, i vari Grease o La febbre del sabato sera, declinati in contesti giapponesi. Come però nel periodo classico, il jazz, più che la disco music, è parte integrante della colonna sonora. Basti pensare al magnifico Shanhai bansukingu (Rapsodia di Shangai) del maestro dello yakuza movie Kinjii Fuukasaku che sposta l’azione negli anni Trenta e si concentra, appunto, su un gruppo di musicisti jazz. L’ambientazione (la Seconda guerra sino-giapponese), ma soprattutto i rapporti umani tra i personaggi non possono che rimandare al contemporaneo C’era una volta in America.
Da citare anche Heriuddo (Hellywood) del 1982: il modello è il The Rocky Horror Picture Show ma il cattivo gusto della messa in scena è ancora marcato. Alieni, coprofagia, una discoteca come scenario, musica disco stavolta predominante e una scivolata stonata verso il gangster movie, fanno di questo film un’opera a suo modo di culto ma estremamente sbilanciata tra il disastro e il capolavoro sciagurato.
Più misurato invece Koi ni utaeba, del 2002, diretto da Shûsuke Kaneko e interpretato dalla bellissima modella Yûka. La spersonalizzazione del musical giapponese post Kurotokage è mai come qui, in un modello comunque aureo, evidente. Musicato da hit moderne dell’epoca, internazionali e nipponiche, Koi ni utaeba è una favola che vede una ragazza chiedere l’aiuto di un genio per ritrovare il suo fidanzato partito per l’Australia. Buffo, debitore nei momenti coreografici dei vecchi musical di Masahiro Makino, è un’opera già pensata per piacere ad un pubblico internazionale, quello delle commedie romantiche di Jennifer Lopez. È questo il problema dei musical giapponesi contemporanei, quasi una sorta di timidezza a esprimersi in maniera del tutto originale, castrati in origine dal desiderio di essere esportati, anche in forma di remake, dai confini nazionali. Yûka, ex modella di biancheria intima, è comunque notevole come attrice come interprete.
È il 2014 quando irrompe nei cinema giapponesi un’opera così corroborante da ricordare per fantasia e impatto il Kurotokage di Umetsugu Inoue. Si sta parlando di Tokyo Tribe di Sion Sono, un regista ma soprattutto un poeta, capace di ripensare non solo al musical in una maniera forse mai così moderna. Sontuoso, folle, apocalittico, con numeri musicali talmente audaci da stupire lo spettatore più smaliziato, Tokyo Tribe, musicato dai ritmi hip hop indiavolati di B.C.D.M.G., è un film immenso ed emotivamente coinvolgente. Sion Sono usa il manga d’origine di Santa Inoue, lo stravolge, lo riempie di colori, mélo e combattimenti, di sparatorie coreografate come fossimo davanti a un Romeo e Giulietta sotto LSD, girando e regalandoci il primo musical d’azione rap della storia del cinema. Stavolta il film sbarca anche in Italia, con un’anteprima al Torino Film Festival, ed è un successo in tutto il mondo, soprattutto nei circuiti dei Festival. È allora che il musical giapponese arriva non solo alle orecchie ma anche agli occhi dei fan occidentali, qui nella sua declinazione più moderna, azzardata e riuscita da tanto tempo. Sion Sono, come Umetsugu Inoue, più di Umetsugu Inoue, si riappropria del musical giapponese, lo cannibalizza, lo rielabora e lo serve ad un pubblico non solo locale, in una forma nuova, internazionale e finalmente fruibile a tutti anche nel suo essere acidamente originale. E anche questo è l’inizio di una nuova epoca.