L’attacco alla metropolitana di Tokyo nel 1995, perpetrato da alcuni membri della setta Aum Shinrikyo continua ancora oggi, a venticinque anni di distanza, a gettare la sua ombra lunga sulla società giapponese. Il gas sarin rilasciato all’interno delle carrozze dei treni provocò la morte di tredici persone e ne intossicò alcune migliaia, lasciando in eredità pesanti danni fisici e mentali ai sopravvissuti. Su questo eccezionale evento storico, vero e proprio spartiacque per la società del Sol Levante degli ultimi decenni, sono stati scritti molti volumi, il più famoso di questi rimane probabilmente Underground di Haruki Murakami, e realizzati molti film, sia di finzione che documentari, si ricordi almeno Distance di Hirokazu Kore’eda e A di Tatsuya Mori.
Aganai (Me and the Cult Leader) è un documentario che tocca e lega le memorie dei fatti di 25 anni fa con la situazione presente delle vittime e della setta, Shoko Asahara il fondatore della setta è stato giustiziato nel 2018, ma Aum Shinrikyo si è trasformata in Aleph ed è un’organizzazione ancora attiva sia Giappone che nel resto del mondo. Il documentario, presentato in alcuni festival durante questo 2020, è diretto da uno dei sopravvissuti all’attentato, Atsushi Sakahara, che ancora oggi ne subisce le conseguenza fisiche e psicologiche. Si tratta di un lavoro dove il regista viaggia e conversa con uno dei membri della setta, Hiroshi Araki, responsabile delle pubbliche relazioni del gruppo. Una sorta di road trip nei luoghi dell’adolescenza e della giovinezza di quest’ultimo, la casa della nonna a cui era molto legato, ma anche l’università che per un gioco del destino è la stessa che fu frequentata da Sakahara. Le loro conversazioni sono calme, lente, i silenzi occupano spesso gran parte dei loro scambi, soprattutto quando Sakahara chiede se questi provi rimorso e sia disposto a chiedere scusa.

NON SI TRATTA quindi di un lavoro di tipo giornalistico ed aggressivo con una parte che attacca l’altra, ma piuttosto il lento dispiegarsi del lavoro rivela il processo che ha portato Araki ad ad unirsi alla setta, a «rinunciare al mondo» e, come indica molto bene il sottotitolo, fornisce allo spettatore «un moderno report sulla banalità del male». Il quadro che si delinea dopo quasi due ore di conversazioni fra i due, con in sottofondo il paesaggio della campagna giapponese, è tanto complesso quanto difficile da decifrare. Ai passaggi più topici come quando Araki piange rivedendo i luoghi frequentati quando era bambino ed al silenzio alle domande più direttamente legate alle colpe della setta e dei suoi membri riguardo all’attentato, si intersecano passaggi più lievi sul cibo, sul paesaggio o momenti ilari in cui i due giocano con dei sassi in riva ad un fume. La visita dei due agli anziani genitori di Sakahara è particolarmente toccante, quanto fredda è la reazione di Araki in occasione della commemorazione dell’attentato, quando si rifiuta di porgere le scuse per quanto fatto dal gruppo religioso a cui appartiene.
Oltre ad offrire un punto di vista, naturalmente parziale e incompleto, sulla vita di Araki, il documentario è anche un’esplorazione del sincero ma complicato interesse di Sakahara verso il suo «carnefice». La vita di Sakahara stesso, dopo i tragici fatti del 1995 ha subito un corso molto particolare, libri scritti sulla vicenda, podcast, partecipazioni ad altri documentari, ma anche un matrimonio con una donna ex-membro della setta, durato pochi anni, fatto che spiazza e getta su tutte le vicende raccontate un taglio ed una luce ancora più sinistra.

matteo.boscarol@gmail.com