Il 15 marzo il Parlamento europeo ha approvato due risoluzioni sul ruolo della Troika nelle politiche di gestione della crisi e di assistenza ai paesi in difficoltà. Sintetizzando: macelleria sociale di dubbia legalità. È certamente ironico che parole così forti siano state pronunciate da un organo in scadenza, che quando doveva e poteva farlo ha ceduto il comando al Consiglio europeo e, per esso, al Direttorio della Germania e dei suoi stretti alleati. Tuttavia le indicazioni dell’Assemblea di Strasburgo trascendono il piano della critica tardiva delle politiche del rigore e dei sacrifici. Si cerca di guardare al futuro e di prefigurare lo scenario di un’Europa più sensibile alle questioni sociali. È la questione centrale: la leva per arrivare davvero a un’entità politica sovranazionale.
A Lisbona nel 2000 si decise che crescita, occupazione e inclusione sociale dovessero marciare insieme. Non attraverso atti vincolanti e un governo economico europeo, ma con il coordinamento delle politiche interne. Si cercò di individuare quali fossero le misure sociali più inclusive e al tempo stesso più efficienti; attraverso anni di confronto e di valutazione congiunta delle scelte nazionali (con il cosidetto «metodo aperto di coordinamento») si sono selezionate le best practises europee, quelle politiche che sanno davvero promuovere le scelte dei singoli senza relegarli necessariamente nella camicia di forza di relazioni contrattuali rigide e mortificanti la loro creatività. Si è acquisita la consapevolezza della necessità di sistemi di welfare mutuati sul «cittadino-laborioso» e non sulla figura di lavoratore «standard», oggi declinante nella fine della «società dell’impiego» preconizzata da Alain Supiot già nel 1999. Questo processo ha generato solo indicazioni, non obblighi giuridici vincolanti. Dal 1998 si discute in Italia dell’introduzione di una forma di garanzia universalistica dei minimi vitali, oggi si sono trovati 10 miliardi che però saranno elargiti a chi ha già un lavoro fisso, ancorché poco retribuito, lasciando senza protezione milioni di indigenti.
Allentare o rimuovere le politiche di austerity, quindi, non deve significare tornare alla piena discrezionalità nazionale, soprattutto per i paesi che l’hanno utilizzata così malamente. La scommessa è un’altra: la costruzione di un welfare europeo che sia il sostrato contenutistico dell’auspicata Europa unita. Si dovrebbe pertanto compiere uno sforzo propositivo su poche misure simbolicamente eclatanti e convincenti per la loro incisività, per recuperare il favore popolare: una Carta di rivendicazioni sociali, reddito minimo garantito, salario minimo, un sistema unitario di assicurazione contro la disoccupazione, regole sui servizi di interesse pubblico e sui beni comuni. Alcune di queste misure potrebbero essere, in parte, finanziate direttamente dall’Unione sulla base di entrate proprie (carbon tax, corporation tax), senza sconvolgere l’attuale architettura dei Trattati.
Sino a oggi la polemica antisovranista si è concentrata sull’essere gli Stati «signori dei Trattati». Ma a ben guardare sono anche «signori della solidarietà»: nei welfare moderni, infatti, la lealtà e il consenso politico sono scambiati, come mostrò Claus Offe negli anni ’70, con le prestazioni sociali. Privare le classi politiche nazionali di questo meccanismo di legittimazione, ridislocandolo a livello sovranazionale, forse ci avvicinerebbe davvero a un destino federale.