Dobbiamo convenire con Fabien Bellat sul fatto che Togliatti, la città costruita nel cuore della Russia, sulle rive del Volga, rappresenti una delle vicende urbanistiche più audaci della seconda metà del secolo scorso. Proprio di questa «avventura umana e urbana eccezionale, testimonianza dell’impresa demiurgica dell’Urss» tratta l’ultimo saggio dello storico dell’arte francese: Une ville neuve en Urss, Togliatti (Parenthèses, pp.171, euro 28). L’importante centro urbano prima di diventare negli anni di Krusciov e poi di Breznev il più importante sito industriale sovietico con la fabbrica automobilistica Avtovaz, fu un antico villaggio chiamato Stavropol – ora sommerso dal lago artificiale formatosi con la deviazione del fiume e la costruzione della diga – e poi uno dei principali avamposti che Stalin designò per l’industrializzazione accelerata del paese.

Togliatti_Diga idroelettrica sul Volga
Diga idroelettrica sul Volga

Attraverso la ricostruzione delle sue vicende urbanistiche è riassunta buona parte della storia dell’architettura sovietica: a iniziare dal contributo che negli anni Trenta diedero i gruppi collegati al Costruttivismo. Conclusasi la loro fase utopica nel decennio precedente, mentre in Occidente si consumano le illusioni riformiste dei regimi socialdemocratici, il primo Piano quinquennale (1928) offre agli architetti costruttivisti l’opportunità di misurarsi con i problemi della pianificazione dei nuovi centri industriali. Non a caso, nei primi capitoli del saggio Bellat tratta di Magnitogorsk, di Ekaterinbourg e di Nijni-Taguil: villes neuves nel bacino metallifero degli Urali trasformate da Stalin da piccoli borghi fondati nel XVIII secolo a rilevanti centri metallurgici per la modernizzazione dello stato sovietico.

Spazi «frugali»

È questa l’occasione che si presenta agli architetti occidentali e sovietici per un confronto sui temi del disegno delle nuove città industriali e in che modo farle abitare da decine di migliaia di famiglie operaie. A Magnitogorsk, il tedesco Ernest May proporrà quartieri a bassa densità la cui «frugalità rivoluzionaria» sta nei materiali di bassa qualità impiegati e nelle difficoltà di adattare i suoi alloggi minimi (monofamiliari) alle esigenze di gruppi più numerosi. Moisei Ginzburg evidenzierà tutti i limiti di quell’esperienza composta da «schematismi teorici» e «meccanici tipi edilizi». Nel suo piano per Nijni-Taguil (1935) cerca invece di superarli con l’enfasi del decoro urbano e sfondi scenografici creando quel «grande insieme architettonico» che realizzi l’auspicata «sintesi urbana». Lo stesso desiderio che a Togliatti, circa quarant’anni dopo, cercherà di soddisfare Boris Roubanenk (1910-85), l’ingegnere-architetto incaricato di redigere, dopo la destanilizzazione, il piano regolatore generale del distretto di Avtozavodski (’67). È consapevole che l’insediamento del periodo staliniano è «troppo gerarchico» per essere ulteriormente esteso.

Bellat inquadra con scrupolo la figura di Roubanenk: dalla sua formazione modernista a Leningrado, dal 1927 al 1934 (Concorso per il Palazzo dei Soviet, 1931), allo storicismo dei suoi primi edifici costruiti ancora a Leningrado (viale Maloochtinski, 1936) o a Minsk (1947), fino alla sua adesione all’International Style (Concorso per il padiglione Urss all’esposizione di New York, 1964) e, poi, a visionarie megastrutture (Concorso per Centre Pompidou di Parigi, 1971). Roubanenk rappresenta per noi un’autentica scoperta e ne siamo grati a Bellat. Il suo distretto di Avtozavodski cambia le impostazioni dell’urbanistica sovietica poststaliniana. Prima che l’ingegnere-architetto russo rediga un piano per l’espansione di Togliatti e dare così una risposta alle pressioni del Cremlino per un’immediata risoluzione alle questioni poste dallo sviluppo industriale, egli si prende tutto il tempo per le sue analisi urbane.

Cantieri epici

Convinto che l’«evoluzione strutturale» della città debba trovare decisioni «industrialmente quanto umanamente efficaci» e per nulla improvvisate come i quattro piani generali precedenti elaborati negli anni ’50. Progetta così, sul modello di ciò che fecero Costa e Niemeyer per Brasilia, una griglia di assi ortogonali e diagonali generati da uno schema cruciforme centrale dove il braccio verticale della croce corre dal lago alla fabbrica, mentre il suo braccio orizzontale delimita i vari blocchi residenziali. La città voluta da Stalin è disposta di fianco, anch’essa sul bordo del lago. Roubanenk eredita una «città con più teste» divisa in tre distretti (Komsomolski, Centrale, Jigouliovsk) e sorta nell’«improvvisazione permanente» di Mikhail Sorokine (1922-88) e dei suoi architetti che c si configura, come scrive Bellat, in «un ambiente stilisticamente elegante e con un’intimità sorprendentemente umana». I momenti centrali dello sviluppo urbanistico di Togliatti risiedono in due eventi ai quali lo studioso francese dedica due specifici capitoli: la diga sul Volga, e la fabbrica d’auto Avtovaz che, in soli tre anni, dal 1966 al 1969, sotto licenza della Fiat (oggi Renault-Nissan), rese possibile l’avvio del processo della motorizzazione di massa in Urss. Nel primo caso il «cantiere epico» della diga trova spiegazione nello slogan di Lenin: «il comunismo è il potere dei Soviet più l’elettrificazione dell’intero paese».

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Distretto Komsomolski, 1954

A differenza però di altre opere idrauliche, come quella dell’impianto idroelettrico sulla Dniepr per Magnitogorsk, a Togliatti non ci si avvale delle capacità di tecnici stranieri, ma di russi – gli ingegneri Nikolai Razine e Ivan Komzine, l’architetto Leonid Poliakov – mentre per costruirla non di operai liberi uniti dalla fede «nell’edificazione del socialismo», ma da decine di migliaia di detenuti: prigionieri di guerra tedeschi e di politici sovietici provenienti dai gulag staliniani. Inaugurata nel 1957 da Krusciov, circa sette anni dopo la sua concezione, la diga fu il segnale forte del nuovo corso sovietico verso la modernizzazione del paese come un decennio dopo lo sarà l’apertura della fabbrica Autovaz. Togliatti da allora rappresenta il simbolo della metropoli «moderna» sovietica.

Nel 1964 cambia il suo nome da Stavoprol in quello del Migliore che, nel 1996, i suoi cittadini riconfermano attraverso un referendum. Sono trascorsi molti anni da quando quel nucleo di qualche migliaio di abitanti abbandonò il «borgo sacrificato» alla diga e all’industrializzazione. La città da allora è cresciuta arrivando ad avere oggi una popolazione di poco meno di un milioni di abitanti. «Per i prossimi anni – scrive Bellat – le lacune sono una sfida per un rinnovamento indispensabile la cui qualità dipenderà dalla consapevolezza di ciò che significa il proprio patrimonio». In tal senso, il lavoro dello storico francese ne rappresenta un originale e valido contributo.