Pensavamo di avere toccato il fondo con il disastroso esito elettorale del 4 marzo. Quindi magari di potere godere di qualche vantaggio dall’effetto rinculo. Invece no. In diversi si sono messi a scavare. Ora ci si trova in fondo ad una crisi istituzionale dalle dimensioni e natura inedite con l’aggravante di una destra arrembante che annusa il profumo inebriante di una vittoria di proporzioni fino a poco fa imprevedibili. Ciò che non è accaduto in Francia, la vittoria del lepenismo, potrebbe accadere in Italia. Non a caso gli editorialisti de la Repubblica lamentano l’assenza di un Macron italiano in grado di evitare un simile esito.

Certo non possono contare, e da tempo, su un Renzi che alterna pop corn con proclami «antisfascisti», pallida caricatura di un radicale d’antan. A tutto ciò si è giunti con un precipitare di ora in ora, tra palesi furbizie e clamorose insipienze. La terza pessima legge elettorale ha offerto il contrario della governabilità. Chi l’ha propugnata e difesa ne porta tutta la responsabilità. Al posto del governo subito c’è la crisi profonda degli equilibri tra i poteri istituzionali previsti dalla Costituzione. Il sistema delle coalizioni senza programma, più simili a container che ad alleanze politiche, hanno facilitato lo scomporsi delle aggregazioni elettorali come non mai. Da qui, dopo un poco di melina e la più che prevedibile paralisi del Pd che avrebbe pagato con ulteriori fratture qualunque mossa, si è giunti ad un «contratto» di governo, espressione che già rivela la concezione privatistica di rapporti politici e istituzionali, fra Lega e M5Stelle.

I QUALI HANNO calpestato con disinvoltura tutti gli articoli costituzionali che regolano le modalità della nascita di un nuovo governo, presentando a Mattarella un pacchetto preconfezionato di «contratto», premier e ministri. Che non potesse essere accettato in quanto tale tutti lo sapevano. Che il capo dello Stato si incartasse in un diniego rispetto all’incarico di Savona a ministro dell’economia, era assai meno prevedibile. Ma è appunto questo che ha fatto da detonatore. Già si è ben detto sui limiti intrinseci alla moral suasion che un Presidente della Repubblica può esercitare avvalendosi del suo potere di nomina dei ministri. Non solo sono stati ampiamente superati ma le motivazioni fornite hanno inchiodato lo scontro politico tra no-euro ed entusiasti di Maastricht. Il terreno più fertile per fare crescere il nazionalismo populista. Tanto più che mass media, euroburocrati ed esponenti politici europei hanno gettato benzina sul fuoco con dichiarazioni sprezzanti e padronali, ultime quelle di ieri del commissario europeo al Bilancio, Hoettinger.

Eppure sia la Lega che il M5S avevano di molto attenuato il loro antieuropeismo. Per la prima in particolare il tema principe era ed è l’immigrazione e la sicurezza, come conferma uno spavaldo Salvini in queste ore. E persino Orfini si è accorto che le politiche e le parole di Minniti hanno portato acqua al mulino leghista. Nel «contratto» non compare l’uscita dall’euro e naturalmente neppure il piano B, che se ci fosse mai verrebbe reso noto prima di essere applicato per ovvi motivi.

È VERO, IL GIORNALE della Confindustria ha alimentato in tutta la campagna elettorale la tesi dello scontro fra le due Europe, quella di Maastricht (che loro chiamano di Ventotene) e quella di Visegrad. Ma i mercati se ne erano stati tranquilli, e lo spread è cominciato a salire a balzelloni, così come i rendimenti dei nostri titoli anche a breve, e le borse a scendere dopo la liquidazione della candidatura di Savona, non prima. La scelta di Cottarelli, l’uomo della fallimentare spending review, incarnazione ambulante del rigorismo più ostinato, a lungo direttore esecutivo del Fondo Monetario Internazionale per Italia, Albania, Grecia, Malta, Portogallo, chiude il cerchio e dà il senso dell’operazione condotta da Mattarella. Ma non è detto che neppure questa fili liscia, visto che il primo incontro fra i due non ha ancora partorito alcunché e che si parla con insistenza in queste ore di elezioni in piena estate. Da queste ne guadagnerebbe solo la destra estrema. I sondaggi indicano una flessione del M5stelle e un balzo addirittura di dieci punti di Salvini. Il quale può ben lasciare ai primi la richiesta di messa in stato d’accusa del Presidente della repubblica per cui non esistono peraltro presupposti costituzionali né tempi attuativi.

MENTRE IL REGGENTE del Pd dichiara l’astensione di fronte al governo Cottarelli, c’è chi, nelle file del Mdp pensa (e speriamo abbia smesso) addirittura di fare peggio, votando a favore. Quel voto potrà anche avere un esito scontato, ma assume un senso politico discriminante. Si tratta di uscire dalla tenaglia dell’europeismo «angelicato» (nel senso di Anggela Merkel) e quella del ritorno allo stato nazione; di non confondere l’antifascismo con gli ammonimenti dei mercati finanziari; di mettere in campo concretamente una posizione che si è sentita troppo poco e flebilmente nell’ultima campagna elettorale. Come vaso di coccio tra vasi di ferro. Se la sinistra vorrà esserci, anche in caso di elezioni più che imminenti, dovrà trovare una dimensione unitaria attorno ad un programma che per quanto essenziale eviti di venire schiacciato in uno scontro che appartiene sì alla crisi del neoliberismo, ma non certo alla sua sconfitta.