Luca Lotti, ministro dello Sport ed ex sottosegretario di fiducia di Renzi a palazzo Chigi, giura di essere «tranquillissimo», e più di questo ai cronisti non concede. Avrebbe anche ragione a reagire così a un semplice avviso di garanzia, se non fosse che per ombre molto meno dense il governo di cui lui stesso faceva parte ha messo alla porta ministri, e il partito di cui è tra i massimi dirigenti ha bersagliato per mesi, coadiuvato da una stampa forse mai tanto faziosa, la sindaca di Roma. Anche in quel caso per faccende di gravità non comparabile alla vicenda Consip.

I tamburi di guerra del Movimento 5 Stelle rullano a più non posso. Chiedono che il premier Paolo Gentiloni si presenti in aula per spiegare se e perché ha ancora fiducia nel ministro voluto a tutti i costi non dallo stesso Gentiloni ma da Matteo Renzi. La ministra per i rapporti con il parlamento Anna Finocchiaro si è impegnata a inoltrare la richiesta ma per ora l’intervento del premier in aula non sembra in programma. In realtà il governo non è troppo preoccupato per la vicenda, almeno allo stato degli atti. Non essendo stato questo presidente del consiglio a reclamare dimissioni per faccende al paragone lievi e dal momento che per ora Lotti risulta solo lambito dallo scandalo, Gentiloni è convinto che l’incidente non sia grave.

[do action=”quote” autore=”Luca Lotti”]Sono tranquillissimo[/do]

Nessuno però, nel governo, si nasconde che se la marea dovesse salire il problema di “togliere il dente” si porrebbe, e probabilmente non sarebbe affatto una faccenda di facile risoluzione dal momento che Lotti è il terminale numero 1 del segretario del Pd all’interno dell’esecutivo. Neppure il Pd peraltro si fascia la testa sul caso Lotti, che per ora è considerato parte della sfida a palate di fango in corso con il Movimento 5 Stelle.

Il discorso cambia, anzi si rovescia, quando da Luca Lotti si passa a Tiziano Renzi. Prima di tutto perché in quel caso non si può parlare di inchiesta che lambisce ma, al contrario, il coinvolgimento sembra già ben più profondo. In secondo luogo perché nessuno può escludere una escalation nei prossimi giorni che aggraverebbe di parecchio la situazione del papà del segretario uscente. L’intercettazione in cui Alfredo Romeo afferma di aver raggiunto «i livelli politici più alti» scotta solo a sentirla nominare.

Le accuse di M5S, in effetti, sono su questo fronte molto più pesanti e circostanziate, anche se si tratta di addebiti politici e non penali. Luigi Di Maio parla esplicitamente di finanziamenti di Romeo alla fondazione di Renzi: «Non c’è un risvolto penale diretto ma un coinvolgimento politico: suo padre e il suo braccio destro sono coinvolti in un’inchiesta e l’ex premier ha una fondazione in cui entrano i soldi di Romeo. Chiediamo la rendicontazione di tutte le entrate d questa fondazione».

[do action=”quote” autore=”Matteo Orfini”]Renzi ha già detto  tutto quel che un leader deve dire. Cosa deve aggiungere?[/do]

Il Pd cerca di fare muro. Il reggente Matteo Orfini sguscia: «Renzi ha già detto tutto quel che un leader deve dire. Cosa deve aggiungere?». Orlando non tenta affatto di sfruttare la vicenda a fini congressuali. Fa invece barriera con i renziani: «Prima di parlare di tempesta aspetterei. Abbiamo già avuto tante inchieste che poi non hanno avuto conseguenze processuali. Sarei cauto a trarre conclusioni».

Ma la spina più dolente è appunto politica, non penale. L’avviso di garanzia arrivato a un esponente di primo piano del Pd, a un governatore forzista come Stefano Caldoro e a un ex An come Italo Bocchino è provvidenziale per M5S che stava pagando in termini di consenso proprio l’accusa di essere «come tutti gli altri». Ma soprattutto, se il coinvolgimento di Tiziano Renzi nel fattaccio dovesse aumentare nei prossimi giorni e peggio che mai se si arrivasse addirittura all’ipotesi più tenuta al Nazareno, quella dell’arresto, il danno d’immagine per il candidato in pectore alla guida del Paese sarebbe letale. Nessuno nel gruppo di testa del Pd ha infatti dimenticato il prezzo carissimo pagato per l’affaire Banca Etruria, con il padre dell’allora potentissima ministra Maria Elena Boschi di mezzo. Stavolta il botto potrebbe replicarsi, in versione amplificata.

Il punto dolente non è la corsa per la segreteria, nella quale Matteo Renzi pagherà forse un prezzo che non dovrebbe però essere troppo esoso. E’ la candidatura a premier: di qui alle elezioni, in termini di immagine e consenso, il cavallo di testa del Pd potrebbe finire azzoppato. Tanto da non poter più correre.