Che sarebbe Venezia senza Tintoretto? Senza l’incontro con la sua sterminata produzione di quadri, pale d’altare ed enormi teleri in chiese, confraternite e palazzi di questa città? Insieme a Tiziano e a Veronese, infatti, Tintoretto ne ha segnato il volto e l’immaginario, tanto che sembra impossibile raccontare la sua pittura lontano da Venezia, dove è nato e da cui quasi mai si è allontanato. Come esempio di questa difficoltà, viene subito in mente il Tintoretto emigrato a Roma, alle Scuderie del Quirinale, nel 2012. L’ultima grande retrospettiva su di lui, a Venezia, risale addirittura al 1937, a cura di Nino Barbantini, a Ca’ Pesaro.
L’inesorabile celebrazione dei cinquecento anni dalla nascita del pittore ci consente di vederlo finalmente raccontato, alla luce degli studi più aggiornati, in due grandi esposizioni, figlie di un unico progetto nato dalla collaborazione tra Fondazione Musei Civici, Gallerie dell’Accademia di Venezia e National Gallery di Washington (dove le mostre si traferiranno da marzo 2019).
L’evento principale, Tintoretto 1519-1594 (fino al 6 gennaio, a cura di Robert Echols e Frederick Ilchman), si snoda negli appartamenti del doge a Palazzo Ducale, luogo emblematico per eccellenza, segnato quasi ovunque dalla presenza di Tintoretto, che vi ha lavorato dalla giovinezza fino agli ultimi anni. In questo contesto va in scena una rassegna monografica, che si apre e si chiude con due autoritratti, quello giovanile, alla vigilia del successo (1546-’47, Philadelphia, Museum of Art), e quello spoglio e intensissimo della vecchiaia, che piacerà tanto a Manet (c. 1588, Parigi, Louvre). Tra questi due estremi, in undici sale, si dipana un lungo percorso, articolato per temi, che tenta di restituire la complessità di una produzione ricchissima e quanto mai varia, dalle pale d’altare, ai soggetti profani, ai ritratti, alle allegorie per gli apparati della Serenissima.
Dopo l’apparizione della pala giovanile di San Marziale (1549), fresca di restauro, esempio dei numerosi interventi sostenuti da Save Venice, la mostra vira sullo studio del corpo umano, sul rapporto con Michelangelo e la scultura antica attraverso una serie spettacolare di disegni provenienti da grandi collezioni europee. Quindi segue l’intimità della Susanna e i vecchioni di Vienna e, prima di una galleria di quindici grandi ritratti, tre sale in cui si esplora il processo creativo del pittore. Lo si fa con una inedita ampiezza attraverso dipinti, disegni, dati tecnici, manichini e modellini didattici.
Il dialogo tra le quattro storie ovidiane per la sala dell’Anticollegio di Palazzo Ducale e l’Origine della via Lattea della National Gallery di Londra apre invece sugli anni successivi la morte di Tiziano con risultati di raffinatezza e compiutezza assolute. Prima dell’ultimo capitolo religioso («Visioni di fede»), c’è ancora spazio per esplorare le capacità narrative del pittore («L’istante sospeso») in una sala dominata dal Ratto di Elena del Prado e dal Tarquinio e Lucrezia di Chicago.
Si invita così, per tagli tematici orizzontali, a riflettere sulla novità di un linguaggio altamente drammatico: un comporre sorprendente e imprevedibile, scene di massa in cui i corpi subiscono la tirannica manipolazione di un regista già pronto per grandiosi colossal, una tecnica estremamente sofisticata, dove il pennello disegna e al tempo stesso campisce le tele con un cromatismo dinamico e sprezzante, che consente di coprire superfici sempre più ampie, fino all’immenso Paradiso per la sala del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale (1588-’92), uno dei dipinti più grandi al mondo. Novità di tale portata non potevano non rendere il maestro veneziano oggetto di grandi passioni o di furiose controversie, e non solo ai suoi tempi.
La formazione di Tintoretto, solo accennata a Palazzo Ducale, è il soggetto della mostra allestita alle Gallerie dell’Accademia, le nuove Gallerie che hanno più che raddoppiato gli spazi espositivi dopo il trasferimento dell’Accademia di Belle Arti (Il giovane Tintoretto, fino al 6 gennaio, a cura di Roberta Battaglia, Paola Marini, Vittoria Romani). Una mostra sul primo cruciale decennio di attività, che cerca di guidare il visitatore dentro quell’incredibile contesto in cui, dopo confronti, stimoli e sperimentazioni, con il Miracolo dello schiavo del 1548 giunge a maturazione il linguaggio pittorico di Tintoretto.
Qui le prime opere del pittore entrano in gioco solo dopo un’immersione straordinaria nella pittura degli anni trenta e quaranta del Cinquecento. Capolavori che illustrano «continuità e innovazione» nella pittura veneziana, con Tiziano (Cena in Emmaus del Louvre, 1533-’34), Bonifacio de’ Pitati, Polidoro da Lanciano e il Pordenone. E i cambiamenti prodotti dai grandi toscani, interpreti della cultura figurativa raffaellesca e michelangiolesca, che hanno contribuito all’avvio di una nuova stagione della pittura con i loro soggiorni a Venezia all’inizio degli anni quaranta: Francesco Salviati (la pala per Santa Cristina della Fondazza a Bologna, 1539-’40), Giuseppe Porta Salviati e Giorgio Vasari. Sullo sfondo le proposte innovative di Andrea Schiavone e Lambert Sustris.
Dopo questa grande Ouverture entra in scena finalmente la pittura del giovane Tintoretto e il racconto dei suoi esordi si allarga nella grande sala dell’ala palladiana occupata dalla mostra, a partire dal confronto tra la perduta Battaglia di Cadore di Tiziano e la Conversione di san Paolo di Tintoretto a Washington. Sfilano uno dopo l’altro alcuni dei più importanti esempi dell’attività giovanile del pittore, come la Sacra conversazione Molin (1540), gli ottagoni per Ca’ Pisani (Modena, Galleria Estense), la Cena in Emmaus di Budapest, l’Apollo e Marsia, già soffitto per la casa veneziana di Pietro Aretino, oggi a Hartford, fino allo splendido accostamento tra la Disputa di Gesù di Milano e la Sacra Famiglia e santidi Colonia.
Il finale, nell’ultima sala, è introdotto dall’emozionante dialogo tra le ultime cene di Jacopo Bassano (1547-’48, Roma, Galleria Borghese), di Giuseppe Porta Salviati (1545-’47, Venezia, Chiesa della Salute) e dello stesso Tintoretto (1547, Chiesa di San Marcuola). La sua pittura si fa molto dinamica e astratta. È un passaggio fondamentale per giungere al grande telero con San Marco che libera lo schiavo dal supplizio della tortura, l’opera con cui il pittore si afferma a Venezia. L’enorme tela campeggia a chiusura di una narrazione per immagini tesa e compatta che ha distillato la filologia più agguerrita attraverso la lettura dello stile e una disponibilità profondamente didattica (da non perdere la lettura dei pannelli).
Si raggiunge il Miracolo dello schiavo guidati dal confronto con il Michelangelo della Cappella Paolina a Roma e quello delle tombe medicee a Firenze. È il momento più emozionante: un disegno di Tintoretto studia la figura del Crepuscolo di Michelangelo e accanto un foglio dello stesso Michelangelo prepara la figura del Giorno (Haarlem, Teylers Museum). Tintoretto interpreta il plasticismo michelangiolesco in senso pittorico. Non cerca la definizione della figura, suggerisce l’immagine di un corpo palpitante di vita attraverso tratti nervosi e spezzati, mentre il chiaroscuro dissolve le forme nel violento contrasto tra luce e ombra. Parla da solo a questo punto l’accostamento tra la schiena disegnata da Michelangelo e, nel Miracolo dello schiavo, il soldato dipinto sulla destra, di spalle, con una veste aderente che splende di un assurdo rosso-violaceo.
Usciti dalle Gallerie, a pochi passi ritroviamo Tintoretto a San Trovaso (Ultima cena, 1563-’64) e soprattutto nella chiesa e nella Scuola Grande di San Rocco. La sua pittura è così legata a Venezia che il percorso può proseguire in quasi tutta la città.