Con Lui è tornato (Bompiani, 2013) – bestseller internazionale da cui sono state tratte anche due versioni cinematografiche, tra cui Sono tornato, con Massimo Popolizio e la regia di Luca Miniero – aveva immaginato che Adolf Hitler riapparisse nella Germania di oggi, suscitando incredulità ma raccogliendo anche un certo seguito. Ora, con il suo nuovo romanzo, Gli affamati e i sazi (Bompiani, pp. 511, euro 22) torna ad indagare gli umori della società tedesca raccontando un Paese ossessionato dall’allarme migranti, dove l’opinione pubblica si orienta in base ai temi imposti dai reality televisivi e mentre le idee dell’estrema destra, in costante crescita elezione dopo elezione, rischiano di tramutarsi in drammatici annunci di sventura.

Nato in Baviera nel 1967, dove suo padre si era rifugiato fuggendo da Budapest dopo la repressione della rivolta ungherese del 1956, un passato come cronista e ghostwriter, Timur Vermes si conferma come una delle voci più interessanti di quella narrativa tedesca che si muove lungo il confine del giornalismo e dell’inchiesta: un autore scomodo in grado di suscitare un ampio dibattito ad ogni sua opera.

Lo scrittore tedesco Timur Vermes

Il tema dell’arrivo dei migranti, che è al centro del suo libro, domina il dibattito pubblico tedesco da quando, nel 2015, la Cancelliera Merkel decise di accogliere quasi un milione di profughi in fuga dalla guerra civile siriana. È stato questo anche il suo punto di partenza?
L’idea del libro mi è venuta in quel momento, e non tanto per la decisione in sé, che ritengo sia stata non solo giusta ma anche necessaria per evitare una catastrofe, ma per l’immediata reazione negativa di una parte della politica e della società tedesche. Mentre c’erano persone che accoglievano i profughi alla stazione per far capire che erano i benvenuti, magari regalando un peluche ai più piccoli, altri – all’epoca solo una minoranza rumorosa che non ha però smesso di crescere, fino a trasformarsi in alcune zone del Paese in autentica maggioranza -, gridavano insulti all’indirizzo di quelle famiglie già così provate e affermavano che ogni persona arrivata era «uno straniero di troppo». Veder crescere tra i tedeschi una divisione così netta, e per molti versi inedita, mi ha spinto a scrivere.

Accanto alla crescita della xenofobia e dell’estrema destra, a fare da sfondo al romanzo c’è però anche l’ignavia delle élite: politici, studiosi e giornalisti che sembrano incapaci di avanzare proposte concrete che non siano ostaggio degli umori della piazza.
In realtà credo che il discorso sulle élite vada in qualche modo rovesciato. Premesso che non si può generalizzare, abbiamo i politici e gli operatori dei media che ci meritiamo, nel senso che non sono poi così lontani dal resto della popolazione. Si tratti dei profughi o del tema della «sicurezza», buona parte di chi ci governa o ci informa non fa altro che seguire quelle che sembrano essere le opinioni più diffuse. Dovrebbero contrastare le scemenze che si ascoltano in giro? È probabile, ma questo è un altro discorso.

Il libro esce alla vigilia dell’anniversario della caduta del Muro di Berlino (9 novembre 1989, ndr): l’atteggiamento di chiusura verso i migranti rappresenta il nuovo Muro della Germania?
Con Gli affamati e i sazi volevo prendere per una volta sul serio le idee della destra sugli immigrati e portarle alle estreme conseguenze. In Germania, come del resto ovunque, gli xenofobi coltivano il sogno di chiudersi rispetto al mondo esterno, a cominciare proprio dai migranti. Il loro modello sono le barriere di filo spinato con cui Viktor Orbán ha cercato di sigillare l’Ungheria. Perciò ho immaginato che si volesse costruire un nuovo Muro, questa volta al confine tra il mio Paese e l’Austria per fermare coloro che arrivano dal Medio Oriente o dall’Africa. E che questo Muro fosse presidiato da militari che avevano l’ordine di sparare su chi cercava di valicarlo. Uno scenario che annuncia una possibile catastrofe. E l’aspetto forse più inquietante della cosa è che in realtà non ho immaginato niente. Solo un paio d’anni fa l’ex leader di Alternative für Deutschland, Frauke Petry, aveva parlato della necessità di costruire una barriera con l’Austria: un Muro difeso da soldati con la licenza di uccidere.

In Lui è tornato denunciava gli scarsi anticorpi culturali della Germania di fronte al possibile ritorno di Hitler, stavolta descrive un Paese sull’orlo della catastrofe a causa del dilagare del razzismo. Attraverso degli apparenti paradossi sta lanciando l’allarme sulla fragilità di una società in apparenza così solida?
Credo che tra i due libri si possa cogliere un nesso, perlomeno indiretto che ha a che fare con la memoria e la consapevolezza dei tedeschi. Parlando del ritorno di Hitler, e mi riferisco anche alle reazioni che quel testo ha suscitato nei lettori, mi sono reso conto che il Paese che in teoria dovrebbe essere meglio preparato, e se si vuole «vaccinato» rispetto alle sirene del nazionalismo e dell’estrema destra, è in realtà profondamente vulnerabile. Allo stesso modo, ora mi interrogo su cosa potrebbe accadere di fronte all’arrivo di un gran numero di profughi e temo che la risposta possa essere il dilagare del razzismo e un’affermazione ancor più significativa dell’estrema destra. Di fronte alle crisi degli altri i tedeschi hanno la risposta pronta, ma quando i problemi arrivano a casa loro temo che in un numero sempre maggiore dimentichino perché per tanti anni hanno scelto la democrazia invece del fascismo.