E se la risposta all’austerity e alla precarizzazione messa in atto dai governi europei fosse un salario minimo per tutto il continente? L’idea viene da Susanna Camusso, che ieri ha concluso le Giornate del Lavoro Cgil a Rimini, con due tavole rotonde sull’economia e il sindacato nella Ue. L’argomento può sembrare strano, soprattutto se si pensa che la Cgil – come tutto il sindacato confederale italiano – finora è stata fieramente avversa all’idea di un salario minimo, nel caso fosse stabilito per legge, affermando invece l’importanza che siano i contratti a fissare gli standard. Altrimenti – è la teoria – si deprime la contrattazione. Ma il mondo, come si sa, cambia, e la Germania arriverà agli 8,50 euro minimi orari per tutti dal primo gennaio 2015.

Come non guardare a quello che fa la locomotiva europea, e al fatto che lo stesso sindacato tedesco Dgb (in qualche modo omologo alla Cgil) – come ha spiegato uno degli invitati, il tedesco Mikael Braun – si è ormai convertito al salario minimo, e ne ha sostenuto le ragioni. «È giusto riflettere su questo tema, ma attenzione a non finire come i paesi dell’Est, che su minimi orari di 3 o 4 euro adesso non riescono a reggere – dice Camusso – E visto che per l’Italia si parla di 4,50 euro all’ora, mi chiedo se abbia senso rivendicare oggi salari minimi nazionali, che alimentano il dumping, o se invece questa riforma non abbia senso solo se si parla di un unico standard europeo: e non parlo solo dell’area euro, ma di tutta l’Unione».

Il sindacato europeo, secondo Camusso, per far fronte ai populismi che avanzano «deve avere una sua proposta: che non è solo, come è giusto, il puntare sugli investimenti pubblici per creare lavoro di qualità. Ma è anche dire quel che pensiamo sul Fiscal compact e i trattati Ue: noi proponiamo la mutualizzazione del debito pubblico».

Certo, parlare di solidarietà è veramente difficile, quando ciascun popolo vuole difendere (anche comprensibilmente) le proprie produzioni. E quando la sinistra deve giocare sulla difensiva: «L’Spd – dice ancora il sindacalista tedesco – qualche anno fa proponeva gli eurobond, ma poi ha capito che chiunque vada contro Merkel perde voti. Ormai il tormentone dominante in Germania è ’io non pago per gli altri’, intendendo per gli altri i paesi Ue. E questo pensiero è trasversale: non solo nella Cdu, ma anche nell’Spd e perfino nella Linke. Nella Dgb, con l’effetto Merkel, chi vota Cdu oggi ha quasi raggiunto l’Spd».

A offrire il quadro economico di fondo è l’economista Emiliano Brancaccio. Che ricorda che mentre nell’immaginario collettivo la Germania ha «salari alti», la realtà in molti casi è ben diversa: il successo economico tedesco si è basato, dal 2009 al 2013, proprio negli anni della crisi, su un fortissimo restringimento delle buste paga (cresciute solo del 16% a fronte del quasi 39% della media europea, e lo stesso per il salario reale: +0,8% a fronte del 5% europeo). «La Bce e i banchieri chiedono agli altri paesi di abbassare ancora di più i propri salari, inseguendo la Germania, per poter competere, crescere e pagare i propri debiti».

All’«austerità espansiva», che ha caratterizzato gli ultimi anni – nell’illusione, mai realizzata, che si creasse la crescita e nuova occupazione – si sostituisce adesso secondo Brancaccio la «precarietà espansiva»: la Bce chiede ai governi, soprattutto dei paesi più indebitati, «riforme strutturali» (ovvero di precarizzazione del lavoro, vedi ad esempio il decreto Poletti) nell’illusione che questo possa sostenere la crescita e quindi il pagamento del debito. «Ma non è così: non è avvenuto con l’austerità e non avviene neanche precarizzando. Abbiamo lanciato l’allarme con il ’Monito degli economisti’ a settembre sul Financial Times. Piuttosto che tagliare dovremmo pensare a uno standard retributivo europeo, che salga in proporzione alla produttività».