Ha i soliti pungiglioni di barba non fatta da una settimana, i capelli tagliati corti che van di qua e di là. Faccia fumo di Londra, nessun segno solare della sua vita losangelina. Piccolo piccolo, Tim Roth, 57 anni lo scorso 14 maggio, ha l’aria d’un professorino trasandato, occhiali, giacca qualunque e jeans : tutto preso dai suoi pensieri, ma, anche per questo, con l’amabilità distratta d’uno che presta orecchio alle domande, chissà perché rivolte proprio a lui. Dalle maniche arrotolate della maglietta, esce il nero bracciale d’un tatuaggio sul bicipite destro : « I nomi e le date di nascita dei miei tre figli ». I figli, la famiglia : torneranno spesso nelle sue risposte, anche quelle inattese, o non richieste, che non si vorrebbero ascoltare. Prima della masterclass, accolta da una standing ovation, Sophie Dulac, direttrice dello Champs-Elysées Film Festival, che l’ha invitato come ospite d’onore, aveva con garbata allusione definito la sua infanzia una ‘War Zone’, titolo dell’unico film da lui diretto, nel 1999, su una drammatica vita domestica d’incesto. L’attore-regista l’aveva rivelato per la prima volta anni fa al quotidiano The Guardian. E ora lo ribadisce, con pudico autocontrollo, come fosse storia d’altri, sia alla masterclass al PublicisCinémas che all’incontro-dibattito al Balzac dopo Meantime di Mike Leigh, seconda, superba prova cinematografica di Roth nel 1984, in coppia con uno stupefacente Gary Oldman deb skinhead. La domanda era : perché il cognome cambiato, da Smith a Roth ? La risposta : « Mio padre, Ernie Smith, giornalista, nato a New York da immigrati irlandesi, ha adottato il cognome ebraico-tedesco Roth dopo la seconda guerra mondiale, per solidarietà con i perseguitati dal nazismo e per nascondere la nostra nazionalità mentre viaggiavamo in Paesi ostili alla Gran Bretagna : ma anche per cancellare la vergogna, quella del padre che l’ha violentato, bambino. Anch’io sono stato violentato, bambino, dal padre di mio padre: era stato uno sporco guerrafondaio, è stato un fottuto stupratore, ma nessuno che parlasse. Mio padre, membro del partito comunista inglese, l’ha lasciato, proprio per gli scandali sessuali esplosi al suo interno, nel 1970, quando avevo 9 anni. Quasi 30 anni dopo, ho girato The War Zone ».

Se la vita è zona di guerra (e ci sarebbe da chiedere a MeToo d’esser meno egoista e d’aprirsi al mondo maschile), il cinema può essere una boccata d’aria. Roth vi ha respirato a più non posso, dopo un tentennamento giovanile per la scultura, cui lo spingeva la vocazione della madre, Anne, pittrice di panorami e insegnante nel quartiere di Dulwich a Londra. Oggi celebre per la serie Lie to me, Roth è soprattutto popolare nel cinema per i cult di Tarantino, Pulp Fiction e Le Iene : in Italia – dove talora capita (l’anno scorso a Catanzaro, al Magna Graecia Film Festival) –, per La leggenda del pianista sull’oceano di Giuseppe Tornatore. Cui indirizza, in risposta ai vociferati scontri sul set, un giudizio-sfinge, fumo di Londra : « È un regista quieto, cortese : e molto siciliano. Ma non dimentichiamo l’altro artefice, Ennio Morricone : protagonista del film è la musica ». Curiosamente, con 85 film e 4 serie, Roth ha oggi raggiunto e superato il magico numero di 88 titoli : 88, come i tasti del pianoforte, puntello dell’indimenticabile monologo finale, « … I tasti iniziano, i tasti finiscono. Sono 88. Non sono infiniti, loro. Tu sei infinito. E dentro quegli 88 tasti la musica che puoi fare è infinita … ».

Caro Tim Roth, lei è stato infinito dentro i suoi 88 titoli ?

Macché. Son ben cosciente che da attore non ho girato solo film di pregio. Anzi. Vittorio De Sica, che adoro e di cui faccio vedere ai miei figli le opere, come quelle di Fellini, diceva che certi film da lui girati erano ‘alimentari’. Di quanti film ‘alimentari’ si rimpinza la storia del cinema ? Mal diretti, con ruoli di basso conio. Perché prendervi parte ? Perché a volte ti fanno sopravvivere o, nel mio caso, ti permettono di fare studiare i figli in buone scuole, dunque costose. Io ho studiato nella peggiore scuola di Londra. È lì che son divenuto attore : mi ero improvvisato Dracula per fare uno scherzo ai compagni. E sono stato preso per la parte.

E a 21 anni il debutto in Made in Britain di Alan Clarke. Com’è successo ?

Se sono seduto qui è grazie a lui. Gli devo tutto quel che è avvenuto dopo. Ero capitato ai provini senza sapere che era il regista di Scum di tre ani prima, sulle carceri minorili inglesi, il film che mi aveva acceso la fiamma della recitazione. Vedendolo, avevo provato un piacere rassicurante : l’attore poteva veramente venire dal milieu sociale che doveva rappresentare. In quel momento, ho capito che il cinema ti dava la possibilità di interpretare ruoli di emarginati, della low class, rubandoli a cast borghesi. Quel film mi ha cambiato la vita. Allora frequentavo l’Accademia d’arte, studiavo pittura e facevo teatro nei pub. L’ho visto tre volte di fila. Non sapevo perché, ma sentivo che quella sarebbe stata la mia strada. Si ricorda Ray Winstone ? Lo vedi recitare e ti frigge il cervello. L’ho visto e pensato : OK, io sarò questo.

Poi, Mike Leigh, Meantime, stupendo film tv, dove lei fa dell’handicap il cuore del film.

È l’handicap della Gran Bretagna del momento. Come dice Leigh, è uno studio, sentimentale, della disoccupazione di massa nell’era-Thatcher. Il film, ping-pong continuo tra comico e tragico, è nato dall’improvvisazione : di tutti. I nostri personaggi han preso corpo via via che giravamo. Alla fine sono arrivati un po’ di soldi e abbiamo potuto appoggiarci a una sceneggiatura. Questo film e il precedente, di Alan Clarke, sono stati il mio Study School, la mia formazione professionale nel cinema. Non ne ho avute altre.

A parte la Thatcher : senza di lei, né America né Tarantino, giusto?

Effettivamente (ride), pensavo che la mia carriera, a 30 anni, fosse finita. E invece, eccomi qua. Sì, senza la Thatcher, non ci sarebbe stato nel ’92 il mio Mr. Orange di Reservoir Dogs (Le iene) né il seguito con Tarantino. Niente ‘I love you, honey bunny’. Semplice : infastidito dal regime Tories, avevo abbandonato la Gran Bretagna per gli Usa. Poi, dopo un decennio di Hollywood, han ricominciato a cercarmi. Ma in un altro momento sbagliato : quando, dopo la Thatcher, c’era Blair.

E Quentin Tarantino?

Non era ancora ‘Tarantino’. Era un ragazzotto che voleva girare il suo primo film. Mi aveva visto in Ronsencrantz e Guildenstern sono morti di Tom Stoppard : gli erano piaciuti i dialoghi. A Hollywood m’aveva catapultato Robert Altman con il suo bel film del ’90, Vincent & Theo, dov’ero Van Gogh. Stavo a Los Angeles, con l’idea di tutti i miei colleghi inglesi: rimango tre mesi e vedo che succede. M’è arrivato lo script di Reservoir Dogs : un cane da rapina ? Appena letto, già stravedevo per Quentin. Il mio agente m’ha consigliato di scegliere tra Mr. Pink e Mr. Blonde : ‘No, voglio fare il bugiardo’. Bella l’idea d’un attore inglese che fa un poliziotto Usa che fa il rapinatore.

Il primo incontro ?

Io e quel tipo di nome Quentin siam finiti in un pub. Parlavamo e lui scriveva pezzi di sceneggiatura sui sottobicchieri. Avrei dovuto conservarli : ci siamo fatti sei birre. Tornati nel mio appartamento, abbiamo letto tutto il film. Lui scrive pensando agli attori, nuovi o old guys. Nella troupe – ora è divenuta una specie di azienda – lui è our guy. Sul set si diverte come un bambino : nel sonoro ci son sempre sue risate da tagliare. Già 5 film con lui : oltre a Four rooms nel ‘95 e The hateful eight nel 2015, Once upon a time in Hollywod, per l’anno prossimo. Non esiste regista che lavori meglio con gli attori : e lo dico io che ho collaborato con veri maestri, da Ken Loach, in Bread and Roses, a Tim Burton, in Planet of the Apes, a Coppola, in Youth without Youth.

E Stephen Frears ?

Il mio terzo film, The Hit, nell’84. Ero l’autista di John Hurt e non sapevo guidare. In una scena in cui dovevamo andare su e giù per salite e discese, mi son trovato davanti la cinepresa e invece di frenare ho schiacciato l’acceleratore, facendo volare la cinepresa. ‘Qui è finita la mia carriera’, mi son detto. Invece il produttore, entusiasta, è corso verso di noi per congratularsi. E, al Mystfest di Cattolica, io, John e l’altro protagonista, Terence Stamp, abbiam ricevuto il premio per il miglior attore in un thriller.

L’anno scorso ha partecipato al revival di Twin Peaks. Ci ha capito qualcosa?

Non l’ho visto ancora, ma mi son divertito un mondo a girarlo. David Lynch è d’una gentilezza incredibile. Non c’è da sorprendersi : è quello della Meditazione Trascendentale. Le sue indicazioni sono esilaranti : recitare significa trovare un senso alle sue frasi criptiche. Ha presente la scena della mia morte? Mi ha detto: ‘Voglio che la interpreti come se fossi una bambola di pezza di Elvis’ (ride). Abbiamo girato, buona la prima. Lui, seduto dietro il monitor, rideva beato.

Ha in mente nuove regie ?

Devo ancora sciropparmi un paio di serie tv : perché i miei figli possano finire il college. Il primo è grande, vive a Londra. Ma i due piccoli studiano a Los Angeles, e gli studi costano. Poi tornerò alla regia. Ho un paio di script, uno è Shakespeare rivisitato da Harold Pinter. Con The War Zone mi son tolto la voglia che avevo da anni di dirigere un film. Il mio agente, che mi ha trovato lo script, tratto dal racconto di Alexander Stuart, mi ha detto : ‘Se sei sopravvissuto a un abuso e sei capace di raccontare una storia su questo argomento, allora puoi davvero dire tutto’. Per me è stata una fantastica opportunità : quella di esorcizzare i miei demoni.

 

 

CHAMPS-ÉLYSÉES : PARIGI È CINEMA

Anteprime, omaggi e concorso ‘a fronte’ Usa-Francia di corti e lungometraggi, di produzione indipendente. Un po’ Sundance, un po’ Festival du Cinéma Américain di Deauville, con in più lo charme della Ville Lumière, lo Champs-Elysées Film Festival, creato dalla produttrice, distributrice e esercente Sophie Dulac, da 7 anni, in giugno, calamìta per una settimana migliaia di spettatori nei cinema dell’Avenue che unisce, nastro imperiale, Place Concorde all’Arc de Triomphe. Tapis rouges, masterclass (quest’anno, Tim Roth, Jennifer Jason Leigh, John Cameron Mitchell, i fratelli Zellner) e champagne sull’esclusivo ‘toproof’ del PublicisCinémas della stessa Dulac – terrazza belvedere di fronte all’Arc de Triomphe – oliano con la mondanità di rito l’ingranaggio delle proiezioni. Da cui, alla cerimonia di chiusura con l’anteprima di Damsel dei fratelli Zellner, sono usciti vincitori, con premi in denaro, per gli Usa, Sollers point–Baltimore di Matt Porterfield (ignorato, purtroppo, il potente, originale My Name is Myeisha di Gus Krieger, sul grilletto facile dei policemen contro la gente di colore) e, per la Francia, Contes de Juillet di Guillaume Brac ex-aequo con il magnifico documentario 68, mon père et les clous di Samuel Bigiaoui, su un piccolo regno del bricolage nel Quartier Latin inghiottito dal solito supermarket. La bella Chloé Grace Moretz, star di The Miseducation of Cameron Post di Désirée Akhavan in anteprima al Festival, ha consegnato il Prix du Public a un altro gioiello del cinema francese indipendente, La Trajectoire du Homard di Vincent Giovanni e Igor Mendjisky, sulle ansie e le schizofrenie di una troupe teatrale nelle ore che precedono il ‘chi è di scena’ (m.ser.).