Non è la prima volta che l’attore e regista cinematografico pluripremiato (Oscar per Mystic River di Clint Eastwood, migliore attore al festival di Cannes per The Player di Robert Altman) approda a Milano. Quella tra Tim Robbins e la Triennale infatti è una relazione che comincia lo scorso anno, che si è rinnovata nei giorni scorsi col workshop teatrale tenuto insieme a Cynthia Ettinger e a Bob Turton, e ora con il debutto (il 22 giugno fino al 24 al Teatro dell’Arte) de Il sogno di una notte di mezza estate di cui Robbins firma la regia.
L’attore perà ha profonde radici nel teatro. Nel 1981 fonda a Los Angeles la sua compagnia, The Actors’ Gang, che negli anni ha prodotto circa 100 spettacoli. Il gruppo nasce con l’obiettivo di creare un teatro capace di intrattenere in modo intelligente, senza separazione tra l’attore e lo spettatore, attraverso storie che pongono domande importanti sul nostro mondo, la società, i suoi conflitti. Anche per questo la compagnia lavora con programmi di recupero nelle carceri americane a e nelle scuole pubbliche. «Il teatro è il luogo dove ricaricarmi. Più del cinema tocca nel profondo le emozioni e l’intelletto del pubblico. Ho capito che è più importante illuminare di verità 400 persone che dire bugie a milioni».

Il workshop nasce dalla collaborazione con il CRT. Come è stato lavorare con attori italiani?

Abbiamo avuto insieme a Cynthia Ettinger la possibilità di dividere il palcoscenico con 40 attori che non si conoscevano tra loro e nonostante questo siamo riusciti a creare una profonda connessione. Sono stati bravissimi e molto disponibili a accettare la sfida del nostro approccio tutto fisico al teatro. Lavorare nella patria della Commedia dell’Arte è stato commovente.

A proposito di Commedia dell’arte: in che modo si coniugano gli aspetti sociali del vostro tearo teatro con questa tradizione? 

Abbiamo iniziato a lavorare otto anni fa all’interno del sistema penitenziario di Los Angeles con l’obiettivo di aiutare i detenuti nel loro processo di riabilitazione. Usiamo la Commedia dell’arte come uno strumento per dare ai detenuti l’opportunità di esprimere le proprie emozioni. Ora siamo presenti in cinque diverse prigioni californiane con l’idea di allargare il circuito. Quando viaggiamo con la compagnia cerchiamo sempre di contattare le autorità locali per visitare le carceri del posto. Domani (oggi, ndr) visiteremo il carcere di Bollate. Sono molto curioso di conoscere il funzionamento del sistema carcerario italiano. Essere qui è anche un’occasione per comprendere meglio i personaggii della Commedia dell’Arte, incontreremo Dario Fo, i fratelli Colla. Mi interessa scoprire se gli americani ne hanno dato una a giusta interpretazione.

Perché hai scelto di portare in scena «Il sogno di una notte di mezza estate»? 

Amo questa commedia! E poi volevo un’opera che parlasse di vita, di amore. All’inizio dello spettacolo, Titania dice a Obéron che le cause di tutte le catastrofi naturali sono i loro litigi. Shakespeare ha scritto qualcosa che ancora oggi non capiamo: parliamo di cambiare il mondo, ma dimentichiamo di trasformare prima di tutto noi stessi. Per migliorare ciò che ci circonda, occorre dare ordine alla nostra interiorità. Noi, come compagnia, visti i tempi di crisi sociale ed economica che stiamo vivendo, abbiamo ritenuto necessario ricordare al pubblico che l’amore è una forza potente e può cambiare le circostanze difficili in maniera più profonda e duratura.

Cinema o teatro? 

Li amo entrambi. Forse però il teatro mi ama di più (ride, ndr). Non lo so, davvero… Con il teatro posso creare liberamente ciò che voglio, come attore cinematografico vengo assunto per fare un lavoro. Molto spesso devo dire no perché storie e personaggi non mi interessano. Temo che oggi il clima culturale a Hollywood non permetta di creare senza impedimenti, e poi non producono i film che vorrei fare. Per questo preferisco la televisione, credo che stia realizzando film e serie più interessanti rispetto a quelli dell’industria cinematografica. Ho appena finito di lavorare in The Brink una serie per Hbo insieme a Jack Black che ha iniziato a recitare con l’Actors’Gang quando aveva solo dodici anni!

Oggi sarete nel carcere di Bollate. Cosa puoi dirci invece del sistema carcerario americano?

Le carceri in America sono molto isolate, così tra detenuti e i parenti si crea inevitabilmente una certa distanza. Questo perché non le vogliamo vedere, tendiamo a far finta che non esistano, anche se ultimamente qualcosa sta cambiando, sia la destra che la sinistra sa che il sistema è marcio è va migliorato. Abbiamo notato che in Europa non è così, per fortuna. La relazione tra chi è dentro e chi è fuori si mantiene forte, c’è meno isolamento. Vorrei capire come funzionano in Italia i programmi teatrali nelle carceri, e se sarà possibile vorremmo prendere in prestito qualche idea. Qui ci sono molte più compagnie che negli Stati uniti. Noi siamo piccoli ma con grandi sogni! Vorremmo applicare il nostro programma anche ai veterani e, perché no, agli agenti penitenziari e ai poliziotti.