Evviva. La storia spesso si invera in un piccolo accidente. Con un emendamento al decreto fiscale la maggioranza di governo riapre la strada alla riunificazione della rete di telecomunicazione, stabilendo un matrimonio a tavolino tra le infrastrutture di Tim e di Open Fiber (la società di Enel e di Cassa depositi e prestiti).

I contorni sono da capire, a cominciare dal futuro dei circa 22 mila addetti di Tim implicati nella vicenda. Un passaggio sarà la decisione che il consiglio dell’ex Telecom prenderà oggi sulla sostituzione dell’ex amministratore Amos Genish, pare con l’«usato sicuro» Luigi Gubitosi. Comunque, la tempistica e le modalità della fusione saranno regolate con un’ulteriore attribuzione di poteri all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, che già con fatica mette in pratica i numerosi dettami della legge 249 del 1997 che la istituì e ne disegnò i contorni. Altra stranezza.

Il punto critico riguarda, però, la stessa natura dell’iniziativa, le cui tracce recenti si rintracciavano già nella stagione del governo Renzi rinverdite ora dalla benedizione del vice-premier Di Maio. Si capirà meglio nei prossimi giorni e bene hanno fatto le organizzazioni sindacali a promuovere una mobilitazione per il prossimo 22 novembre. Il tempo è una variabile decisiva per decifrare gli avvenimenti.
Quella che nell’epoca della privatizzazione dell’ex monopolio era l’alternativa alla linea (che prevalse) della completa cessione al mercato dell’azienda con il maquillage del golden share poi divenuto golden power, adesso è un surrogato.

Nella seconda metà degli anni novanta, nel picco dell’ideologia delle privatizzazioni – decise d’intesa tra il liberismo conservatore e le «terze vie» della sinistra – mantenere pubblica la rete aveva un forte valore politico e simbolico. Era una sequenza di un discorso più ampio: la rete è il tessuto nervoso della società e costituisce, come l’acqua, un bene comune. L’accesso deve essere libero e non discriminatorio. I servizi ad alto valore aggiunto, invece, avrebbero potuto, a liberalizzazione avvenuta, divenire oggetto di competizione tra diversi operatori. Ora, sotto lo stesso titolo, sembra celarsi uno statalismo di ritorno. Con l’ipoteca del sovranismo modaiolo. Non solo. Le tecniche, vedi la fase del 5G, hanno almeno in parte superato il concetto medesimo di «rete». Quest’ultima parola ha avuto l’epifania nel periodo mediatico segnato dall’espansione analogica. La rottura digitale ha mischiato l’ordine degli addendi, spostando il centro dal mezzo al messaggio. La previsione gloriosa di McLuhan si rovescia.

Ciò non significa che la rete non sia importante, perché la transizione non è breve. Ma la scelta, perché non sia una cover sbiadita, ha bisogno di una strategia digitale. L’Italia è parecchio indietro e continua la confusione su chi fa cosa. E i dati segnalano persino una regressione. Se la rete unificata è l’inizio di un percorso virtuoso, allora domani magari è un altro giorno.