A casa, alle Isole Vergini, in punta di piedi. Quei piedi da ballerino della palla arancione che hanno fatto saltare a vuoto giganti per quasi 20 anni, portandosi a spasso 214 cm per i 28 metri del parquet. Si è scritto molto nei giorni scorsi sull’addio di Tim Duncan alla pallacanestro, dopo una dinastia illuminata ai San Antonio Spurs, Nba. Tim, pietra angolare di una franchigia piccola incastrata in una piccola città americana a un passo al confine con il Messico. Canotta appesa a una gruccia a 40 anni senza un annuncio in tv, oppure un post su Twitter, meno ancora su Facebook. Per i fan, una lettera, una paginetta di ringraziamenti, qualche battuta concessa al suo miglior amico, microfono alla mano, con immagini immortalate dalla telecamera della fidanzata. Uno dei primi dieci della storia del gioco ha salutato così, l’altro lato della luna rispetto all’addio arena per arena, sera dopo sera per sei mesi voluto da Kobe Bryant, l’altro fenomeno della generazione Duncan, che ha abbandonato il basket, qualche settimana fa.

Anzi, Duncan aveva salutato il gioco nell’ultimo quarto di gara 6 della semifinale della Western Conference contro gli Oklahoma City Thunder, sul parquet solo le riserve, chi scalda sempre la panca, ma anche lui, fino alla fine. Poi, un dito verso l’alto, verso la mamma che aveva perso la vita molti anni prima, facendosi promettere che sarebbe sempre rimasto fedele a se stesso, fedele alla linea, impermeabile ai dollari, fama, glamour. Ed è stato così. Per Duncan certo canta il curriculum, i cinque titoli Nba spalmati in tre decadi, le svariate presenze all’All Star Game, così come nei primi quintetti difensivi e offensivi della Lega a fine stagione.

Ma queste sono statistiche, numeri. Al caraibico (Duncan è nato a St Croix, Arcipelago delle Vergini) non sono mai piaciuti. Per lui è venuto sempre prima il gioco, prima i compagni, l’essenza della pallacanestro. Per una normalità da stella quasi eversiva, ostinata ma mai ricercata.Piuttosto Duncan, nella sua immensa e forse in parte inconsapevole grandezza ha sovvertito per 15 anni le leggi poco mutabili dello sport professionistico americano, che concede una chance a tutti, franchigie multimilionarie nelle metropoli oppure dislocate nelle zone meno cool degli Stati Uniti. Come San Antonio, appunto, che oltre agli Spurs, al fiumiciattolo Riverwalk, offre poco altro. Nessuna franchigia nel football Nfl, nel baseball Mlb, solo una comparsa per ora nella seconda divisione del calcio nordamericano, la Nasl, con gli Scorpions.

Invece Duncan e gli Spurs hanno mandato fuori fase il meccanismo nella Nba che funziona così, o meglio funzionava, perché ora con il nuovo contratto televisivo da 24 miliardi di dollari in nove anni con Tnt e Espn/Abc che ha fatto schizzare il tetto salariale da 70 a 94 milioni annui – chi sfora paga la tassa sul lusso, una minaccia per i bilanci -, le regole potrebbero essere facilmente riviste: una franchigia con spazio salariale ingaggia un paio di top player, costruisce una rosa vincente, alza trofei o lotta per il vertice per tre-quattro anni, poi smobilita, ricostruisce, cede i campioni avanti con gli anni con contratti pesanti, tollera assieme ai propri tifosi qualche anno d’anonimato, anche senza i playoffs, aspettando una nuova occasione, spesso fornita dagli atleti in arrivo dal college, i migliori ogni anno finiscono alle squadre meno competitive della Lega. Così, il business è assicurato per tutti.

San Antonio invece con Duncan in squadra, dal 1997, prima scelta da Wake Forest University, non è mai finita in basso, mai fuori dai playoffs, quasi sempre al vertice. Con il guru ex Cia Popovich in panchina , e il duo Toni Parker e Manu Ginobili che l’hanno sostenuto Duncan nella corsa verso la grandezza. Una costante, tra i Los Angeles Lakers di Shaquille O’Neal e Kobe Bryant d’avvio millennio, con Phil Jackson a dirigere menti e operazioni, poi i Detroit Pistons di Larry Brown sino alla dinastia di Lebron James, respinto con perdite nella finale Nba 2007 quando vestiva la casacca dei Cleveland Cavaliers, poi ritrovato lungo il percorso nel 2013 – vittoria per Lebron con i Miami Heat – e l’anno dopo, rivincita per Duncan e soci. Sino alla gara 6 di quest’anno con i Thunder di Kevin Durant e Russell Westbrook, a loro volta sconfitti solo a gara 7 dai Golden State Warriors del fenomeno Steph Curry, poi battuti in finale da James e Cleveland. Insomma, Spurs sempre al top, un caso divenuto oggetto di culto nei saggi di economia, di business applicato allo sport. Non c’è un altro caso recente nello sport Usa, una piccola realtà, una specie di Leicester della Nba che domina per quasi 20 anni.

Mentre quei Lakers mettono assieme solo sconfitte da anni, i Pistons viaggiano nella mediocrità, poco meglio i Miami Heat. Certo, San Antonio non è stata solo Duncan, anzi non è solo Duncan perché la legacy, l’eredità del numero 21 accompagnerà la franchigia texana per molti anni a venire, ma un sistema, un’organizzazione, come sono chiamate le franchigie negli Stati Uniti, in cui conta solo il lavoro. Una struttura verticale con al vertice le leggi non scritte del caraibico, che a differenza delle altre star si è spesso ridotto lo stipendio per portare in Texas campioni o prospetti di campioni. È accaduto l’anno scorso con La Marcus Aldridge, ala dei Portland Trail Blazers cresciuto con i consigli, i comportamenti, silenzi e parole non dette da Duncan. L’uomo squadra, il più sottovalutato tra i più grandi. Forse l’unico che resterà per sempre, per i compagni e la sua squadra.