Nel campo delle arti visive, e non solo di stretta contemporaneità, è frequente registrare due tendenze, non sempre in opposizione, nelle modalità espressive che caratterizzano l’universo linguistico di ciascun autore. Vi sono coloro la cui ricerca nasce dall’impiego di un particolare medium – quale ad esempio la pittura, la fotografia, l’installazione o la performance – per i quali il mezzo eletto è parte di un universo poetico, è una sorta di estensione-proiezione del proprio universo interiore, di cui incarna la controparte fisica. Per altri, invece, è il tema trattato a essere centrale nello sviluppo della pratica artistica: si pensi a coloro che scelgono di occuparsi solo di argomenti di carattere politico, oppure focalizzano il proprio lavoro quasi esclusivamente su un solo genere come il ritratto.

Si contano sulle dita di una mano gli autori che sfuggono a tale classificazione, e Wolfgang Tillmans (è nato in Germania nel 1968, vive a Londra) è probabilmente uno dei più noti, essendo un fotografo non esclusivamente fotografo, un artista non esclusivamente artista, un attivista non esclusivamente attivista. La vastità del suo approccio, la vastità dei temi trattati – con campi di indagine che spaziano dalla stretta attualità alla ricerca sull’astrazione, dalla moda alla politica internazionale – rendono impossibile una sintesi esaustiva della sua pratica, i cui singoli lavori vanno letti con una modalità antigerarchica, liquida e semplicemente per successive addizioni.

Non c’è un prima né un dopo

A Tillmans la Tate Modern di Londra dedica fino all’11 giugno un’estesa mostra, curata da Chris Dercon, Helen Sainsbury e Emma Lewis, che fornisce al visitatore un quadro della complessità dell’artista a partire dalla sua puntiforme attività di rilevatore ed evidenziatore di eventi, indifferentemente dalla scala, dal tema, dalla soluzione visiva adottata per presentare il lavoro. La mostra è splendidamente intitolata 2017 – che senso avrebbe scegliere un tema o proporre una chiave interpretativa per un autore eclettico, vitalmente immerso nell’hic et nunc, e per di più intriso di temi e pensieri laterali? – e propone una scelta della vasta produzione dell’autore, senza che questa scelta dia l’impressione di essere una retrospettiva o un’esposizione a tesi. Tillmans infatti non è artista che guarda indietro, piuttosto ai lati e, sempre, al nostro tempo. La sua opera, a differenza di quanto frequentemente accade con altri autori, non presenta modalità espressive evolutive: non c’è un prima e un dopo, e, a parte i vestiti delle persone ritratte, difficilmente un osservatore riesce a dare una collocazione temporale precisa alle sue immagini. È quello che accade e che lui vede, sia esso un fenomeno fisico, relazionale o politico, a interessarlo. Tillmans non lavora direttamente sul sé, è piuttosto selezionatore capace di raccogliere elementi significativi di realtà e di dare loro un’organizzazione visiva, anche quando il risultato è un video o una playlist come quella che è possibile ascoltare in una delle sale del museo.

2017 va letta quindi come una serie di prelievi accostati e organizzati liberamente con modalità funzionali di display via via differenti. La mostra apre con un’immagine pixelata che visualizza il rumore di fondo tipico della fine delle trasmissioni televisive analogiche per poi dipanarsi tra immagini in notturna di città realizzate in mezzo al traffico, foto di anonimi uffici di banche, società finanziarie e studi d’artista. Di tanto in tanto, immagini fortemente iconiche, con oggetti riconoscibili quali computer, fari di automobili, sedie, fiori sono accostate ad altre del tutto astratte in cui si vedono tinte cromatiche piatte, tracce di colori disposte sulla superficie o dettagli di liquidi colorati. Tillmans agisce così per contrasto, componendo elementi disomogenei e mettendoli in frizione visiva e concettuale. Il risultato è volutamente babelico, esattamente come è il mondo visivo contemporaneo: affollato e a tratti disorientante.

L’estrema frammentazione dei soggetti fotografati non impedisce però di cogliere relazioni e enucleare temi, primo dei quali la politica internazionale, non tanto nelle sue forme spettacolari di rappresentazione o di potere, quanto invece nei sui effetti sulle vite delle persone. Ecco quindi il burrascoso mare che i migrati disperati in fuga verso l’Europa trovano a Lampedusa (lo scatto fotografico non mostra le persone, ma solo le onde burrascose), o i campi per rifugiati in Africa, di cui Tillmans non evidenzia alcun aspetto drammatico dato che la scena sembra a uno sguardo distratto non dissimile da quella di un mercato etnico: è solo la didascalia a mettere in luce il dramma, il che fa riflettere sull’uso e sull’incredibile manipolazione a cui le immagini possono essere sottoposte in una società strutturata come la nostra; è sufficiente una didascalia per far deragliare completamente il contenuto proposto, considerate le piattaforme attraverso cui le immagini transitano.

«Daily Mail», omofobico e razzista

Ugualmente sono da intendere in chiave politica scatti intimi che mostrano situazioni di complicità o baci tra uomini. Mai come nel suo lavoro il personale è politico: già era possibile vederlo quando, alla fine degli anni ottanta, ritraeva i giovani coetanei ai rave in momenti di gioia, stranezza o sesso. Lo si può leggere anche – in uno dei tanti tavoli in cui sono radunati documenti, diari personali, ritagli di giornali che testimoniano la nostra storia recente – nella corrispondenza con il general manager di Bristish Airways, che l’artista aveva contattato colpito dal fatto che ai viaggiatori in aereo fosse offerto il Daily Mail, quotidiano apertamente omofobico, razzista e xenofobo. È comunque il ritratto, naturale e lontano dagli stereotipi celebrativi, la spina dorsale della pratica artistica di Tillmans. La mostra ne raccoglie molti, sia di amici personali che di persone incontrate casualmente, oppure invece di artisti quali Gustav Metzger o Richard Hamilton.

Uno degli aspetti più intriganti dell’opera di Tillmans è la modalità in cui le immagini sono presentate: non è applicabile nel suo caso la celebre differenza tra picture (immagine fisica dotata di una determinata dimensione) e image (immagine e visione cerebrale) teorizzata da W.J.T. Mitchell, poiché si percepisce come egli consideri l’immagine in quanto contenuto in grado di adattarsi alla necessità espressiva e alle contingenze del momento. L’aspetto dimensionale e la modalità di lettura implicata sono infatti del tutto marginali nella sua pratica realizzativa, come testimoniato dall’adozione di soluzioni allestitive eterogenee che spaziano dalla classica foto montata su cornice a stampe collocate al muro con pinzette o con dello scotch (modalità che l’autore impiega da ormai due decenni). La foto stampata è così la manifestazione fisica di un processo intellettuale, il deposito su cui si concretizza un fenomeno e la sua registrazione fotografica. È semplicemente pelle, estensione materica di un occhio e di una mente che non smettono di guardare e voler conoscere il mondo anche nei rivoli infinitamente piccoli e problematici.