Nel marzo 2017 due giuristi di fama mondiale, Richard Falk e Virginia Tilley, hanno stilato un lungo rapporto per conto dell’agenzia Escwa dell’Onu. Falk e Tilley analizzavano in dettaglio la natura del sistema politico israeliano, la divisione del popolo palestinese in quattro status giuridici diversi (rifugiati all’estero, palestinesi cittadini israeliani ma senza nazionalità, apolidi e meri residenti a Gerusalemme e infine residenti a Gaza e in Cisgiordania sotto occupazione militare). La conclusione: Israele ha istituito nel tempo un regime di apartheid.

Pochi giorni dopo il rapporto è scomparso dal sito delle Nazioni unite, oscurato. In risposta l’allora direttrice dell’Escwa, Rima Khalaf, si è dimessa in polemica con l’occultamento. Ne abbiamo discusso con una delle autrici, Virginia Tilley, professoressa di scienze politiche alla Southern Illinois University ed esperta di conflitti etnici e razziali, in Italia in questi giorni per una serie di eventi organizzati dal Bds in collaborazione con le reti locali di solidarietà con il popolo palestinese, parte della Settimana contro l’apartheid israeliana.

Un anno dopo il rapporto Escwa Israele ha approvato la legge dello Stato-nazione ebraico in cui definisce il territorio della Palestina storica (compresi i Territori occupati) terra appartenente al solo popolo ebraico. Come si inserisce la legge nella vostra analisi?

È una conferma, leggendo il testo della legge è chiaro che non c’è nulla di nuovo o che prima non fosse ovvio. Esistono leggi e disposizioni istituzionali che fin dagli anni ’50 individuano lo stesso obiettivo. La stessa dichiarazione di nascita dello Stato di Israele del 1948 lo stabilisce. La legge non crea un contesto nuovo se non qualche specifica. Ma c’è una cosa che cambia davvero: rende più facile parlare della natura dello Stato ebraico e più difficile per Israele negarla. Ovvero la sua natura di apartheid.

Non è però solo simbolica. Ci si attendono riflessi concreti sulla vita quotidiana dei palestinesi cittadini israeliani, ad esempio sentenze di tribunali in merito all’accesso alla terra.

Ci sono clausole che potrebbero esprimersi in concreto. Ma per me il problema, che è precedente alla legge sullo Stato-nazione del popolo ebraico, è l’intera idea di uno Stato per un solo gruppo etnico o confessionale. La legislazione Onu sulle discriminazioni razziali è qui assolutamente applicabile e ci aiuta a identificare la natura di Israele come Stato razziale. Se hai una dottrina nazionale che definisce minaccia demografica chi non è parte del tuo gruppo, entri in conflitto con il diritto internazionale.

Nel rapporto individuate nella frammentazione strategica del popolo palestinese in diversi status giuridici il principale strumento di segregazione. Può spiegare come questo si realizza in termini di frammentazione della resistenza e imposizione del dominio?

La questione palestinese viene intesa oggi come problema di occupazione militare, quindi relegato solo ai Territori occupati, Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est. L’esistenza di milioni di rifugiati è sempre stata rinviata a un negoziato «finale» mentre i palestinesi cittadini israeliani restano sempre fuori dal quadro complessivo. L’eliminazione del popolo palestinese come forza, entità, nazionale è uno strumento chiaro di Israele per assolvere se stesso dalle discriminazioni imposte all’interno dello Stato stesso. La frammentazione è una strategia applicata anche quando si tratta di violazioni dei diritti: demolizioni di case, confische di terre, uccisioni sono categorizzati a sé, come non fossero parte di un’unica strategia.

Tutte queste pratiche servono a indebolire o a sopprimere la resistenza contro un regime di apartheid, quando la repressione di quella resistenza secondo il diritto internazionale è già un crimine di per sé. Questa frammentazione è legata alla questione di un eventuale processo di pace: l’approccio internazionale verso il negoziato ignora completamente i palestinesi cittadini israeliani e non considera le leggi interne israeliane come connesse all’occupazione militare dei Territori. Nel caso sudafricano si guardava al sistema legislativo come a un unico sistema discriminatorio e lo stesso va fatto con Israele perché l’obiettivo è identico: uno Stato per un solo gruppo.

A pochi giorni dalla pubblicazione il rapporto è stato cancellato dal sito. Esiste ancora?

Il rapporto non è stato ritirato ma cancellato dal sito: gli ambasciatori israeliano e statunitense sono corsi dal segretario generale chiedendo come fosse stato possibile renderlo pubblico. E lui lo ha fatto rimuovere dal sito non avendo il potere di ritirarlo. Ma esiste e tuttora disturba, nessuno sa bene cosa farne. Ma sono stata molto felice che sia stato tradotto in italiano e trasformato in un libro (da Progetto Palestina e Traduttori per la Pace, disponibile online, ndr). L’attenzione internazionale è molto alta. Sono convinta che per comprendere il conflitto vada compresa la natura di Israele. È limitante e inutile chiedere a Israele di ritirarsi dai Territori occupati, non lo farà mai, ha colonie ovunque. Ma comprendendo la realtà, ovvero la strutturazione di una apartheid, si può essere più efficaci.

È giuridicamente errato considerare uno Stato che si autodefinisce secondo linee razziali o religiose una democrazia?

Israele non è l’unico a definirsi una democrazia e allo stesso tempo essere uno Stato esclusivo sul piano razziale. Accadde anche in Australia, nel 1972, con le politiche definite White Australia, una democrazia per bianchi per impedire l’immigrazione asiatica. Il Sudafrica dell’apartheid fu lo stesso. In Israele i diversi status giuridici servono a mantenere minima la presenza palestinese interna così da non poter mai formare un blocco elettorale tale da modificare la struttura dello Stato. Ciò che rende il caso israeliano unico è che ha ottenuto legittimità internazionale, soprattutto in Europa. Questo ha permesso a Israele, a differenza degli Afrikaneers in Sudafrica, di essere considerato uno Stato speciale e dunque impune, uno Stato di natura coloniale che però gode di simpatia.

Ma va ribadito che, secondo il diritto internazionale, nessuno Stato territoriale può riferirsi a un solo gruppo razziale, etnico o confessionale. Perché in automatico significa discriminazione e dunque violazione del diritto internazionale e dei diritti fondamentali economici, politici, civili. Israele chiede e ottiene di essere un’eccezione nel nome dell’autodeterminazione nazionale ebraica. È qualcosa di profondamente sbagliato riconoscere tale privilegio a un solo paese. Rendere Israele responsabile di cosa fa ai palestinesi lo renderebbe non più un’eccezione, ma uno Stato normale tra gli Stati normali.

Pochi giorni fa è uscito un nuovo rapporto Onu su crimini di guerra commessi da Israele contro i manifestanti di Gaza. Inciderà sul discorso?

Sì e no. Penso che ogni documentazione professionale delle pratiche israeliane sia fondamentale, preziosa perché dà un quadro più completo delle violazioni israeliane e della strategia nazionale. D’altra parte registriamo una tendenza: questi rapporti basati su fatti appaiono, si guadagnano un titolo di giornale e poi spariscono. È necessario che abbiano più impatto. Questo conflitto ha determinato la storia del Medio Oriente e continua a farlo. Chiunque conosca questo conflitto sa quanto sia ancora oggi pericoloso e quanto tale pericolosità sia dovuta alla determinazione di Israele a definirsi uno Stato razziale: pensate alla destabilizzazione legata al flusso di rifugiati palestinesi, o alle invasioni del Libano, o più recentemente alle tensioni con l’Iran.