I rapporti tra Cina e Stati uniti, le due più grandi economie del mondo nonché attori globali sullo scacchiere multipolare, sono a un punto di svolta. Da settimane le relazioni tra Pechino e Washington sembravano barcollanti: quell’intesa trapelata riguardo la Corea del Nord – fomentata anche dai tweet del presidente americano Donald Trump – sembra ormai distante.

IL G20 DI AMBURGO pareva aver riportato un equilibrio, evaporato rapidamente negli ultimi giorni. È la sponda americana a confermare i sospetti che Pechino aveva da tempo: ritrovarsi di fronte un interlocutore ondivago, cangiante nei suoi sentimenti e nelle sue traiettorie politico-diplomatico, qualcosa di fronte al quale la determinazione diplomatica cinese, più a proprio agio con politici prevedibili, benché sulla carta più duri contro la Cina, traballa, sospesa tra il rischio di ira e la necessità di contenere nei modi e nelle parole un nervosismo evidente.

IL SEGRETARIO DI STATO americano Rex Tillerson ieri ha lanciato l’allarme della Casa bianca: le relazioni tra Cina e Usa sarebbero a un punto di svolta. Tillerson ha dunque chiesto maggiori sforzi per evitare «conflitti aperti» tra le due economie più grandi del mondo. In un briefing del dipartimento di Stato, con rumors secondo cui Donald Trump si starebbe preparando a ordinare una vasta indagine sulle pratiche commerciali cinesi, Tillerson ha detto ai giornalisti che i legami sono a un bivio, dopo «un lungo periodo di non conflitto» durato più di quattro decenni. Non si tratta del classico fulmine a ciel sereno: se è vero che i due presidenti avevano trovato intese commerciali e una sorta di complicità durante il loro incontro in Florida l’aprile scorso, è altrettanto vero che la crisi coreana al di là della retorica di entrambe le parti ha rivelato un’impossibilità di convivenza tra le due potenze in aree di crisi.

IL PROBLEMA non è certo Kim Jong-un: per Pechino il problema semmai è la volontà americana di intralciare e potenzialmente impedire un’egemonia cinese sull’area attraverso il disturbo nei confronti di Pechino in ogni ambito: dal sistema anti missilistico in Corea, al supporto ai rivali di Pechino per quanto concerne il mar cinese meridionale e tutto quanto risulta conteso da Pechino e altri stati.

A questo vanno aggiunte le pressioni delle lobby americane che forse si erano fidate degli anatema di Trump contro la potenza economica cinese e che ora chiedono il conto, dopo mesi di sorrisi e di promesse circa la sopportazione del modus operandi cinese nel mondo del commercio. E forse ha influito anche la recente legge sulla sicurezza informatica di Pechino, che di fatto vieta alle compagnie americane di poter lavorare sui propri server, obbligandoli a depositare i dati su server cinesi.

NON POCHI NEGLI USA fanno notare che se Pechino si pone come leader globale, con una grande competitività nel settore tecnologico, per le aziende americane sarà ancora complicato l’ingresso sull’immenso mercato cinese, specie nei settori strategici per il governo: semiconduttori e intelligenza artificiale. Non va poi dimenticato che la Cina ha deciso di spingere sull’acceleratore proprio su big data, software e intelligenza artificiale andando a minacciare un asset che finora era stato di predominio americano.

LA CINA vanta infine un surplus commerciale nei confronti degli Usa che ha toccato i 347 miliardi di dollari nel 2016. Tillerson ha detto che la domanda ora è: «Come dobbiamo definire questo rapporto e come facciamo a garantire che la prosperità economica a beneficio di entrambi i paesi e del mondo possa continuare, e che le differenze – perché avremo e abbiamo delle differenze – non portino ad un conflitto aperto?». Non a caso, secondo indiscrezioni riportate dal New York Times , l’amministrazione americane vorrebbe fare ricorso a un emendamento poco utilizzato della propria legge commerciale per indagare sulle pratiche cinesi e stabilire se la politica di Pechino sulla proprietà intellettuale possa essere considerata «non equa dal punto di vista commerciale».
Significherebbe poter sanzionare esportatori cinesi; significherebbe, in parole semplici, avviare una guerra commerciale.