L’abito come evocazione di un mondo, da percepire nella sua aura di unicità, per la preziosità di ciò che ha rappresentato e visto accadere intorno a sé; ma anche un’ode al travestimento, alle molteplici identità che un costume realizza nel mondo immaginifico del set. La performance Embodying Pasolini si è svolta negli spazi dell’ex Mattatoio nel quartiere Testaccio ed è stata presentata nell’ambito del progetto Romaison, voluto dal Comune di Roma per rilanciare l’alto artigianato cittadino che lega la moda al cinema. Protagonista d’eccezione l’attrice britannica Tilda Swinton, a cui se ne deve anche l’ideazione in coppia con lo storico della moda e curatore Olivier Saillard. I due avevano collaborato già nel 2012 per l’evento The Impossible Wardrobe presso il Palais de Tokyo, dove Swinton aveva interagito con una serie di abiti storici – tra cui una giacca appartenuta a Napoleone – provenienti dal Museo Galliera, allora diretto da Saillard, che in quell’occasione aveva dichiarato: «Non l’abbiamo vista come una performance, ma piuttosto come una mostra di 45 minuti che aveva luogo tra le braccia di Tilda Swinton invece che all’interno di una teca». Quanto visto prende senz’altro le mosse da quell’esperienza, ma stavolta gli abiti che riprendono vita sono quelli che Danilo Donati disegnò per i film di Pier Paolo Pasolini e che vennero realizzati dalla Sartoria Farani.

PIUTTOSTO che rievocare un personaggio o un’epoca, si è trattato allora di risvegliare i fantasmi dell’opera cinematografica pasoliniana. Nella prima parte della performance i costumi prescelti mostrano la ricerca storico-antropologica che sottostà ai film con i riferimenti a luoghi e culture disparate, dal pesante mantello verde che il regista stesso vestì ne I racconti di Canterbury per interpretare Chaucer all’abito arabeggiante de Il fiore delle mille e una notte. Per ogni vestizione, viene messo in scena una sorta di rituale: Swinton elimina la carta protettiva mostrando il vestito, a cui segue un momento di osservazione e meraviglia, per veicolare al pubblico il valore e l’intensità che abitano l’oggetto, prima di indossarlo.
Per quest’ultima operazione l’attrice viene aiutata dallo stesso Saillard, vestito con guanti e camice bianco, che con grande cura posiziona i tessuti sul suo corpo magro e slanciato. Per ogni costume, Swinton sceglie un’espressione: un frame, un’icona muta e immobile per pochi secondi, che può rimandare a un film o a un personaggio. Acquista qui senso maggiore il titolo della performance, perché è in questa breve e intensa interpretazione che si fa il prendere corpo, l’embodying, dell’opera pasoliniana: l’attrice prende su di sé il peso di una vicenda terribile come quella del cannibale di Porcile, oppure, con fare ironico, evidenzia la distanza che esiste tra lei, noi e quel particolare cappello un po’ ridicolo.

NELL’ULTIMA PARTE della performance, ambientata in uno spazio ulteriore, Swinton è infine immersa tra diversi abiti di Salò o le 120 giornate di Sodoma. Stavolta non li indossa ma li avvicina solamente al proprio corpo, in un accenno. Tra gli abiti borghesi come il vestito del matrimonio o quello bianco con fiori neri indossato da Hélène Surgère, l’attrice è come in una triste e improbabile casa delle bambole, ad interrogarsi sull’aspetto della figura femminile. Nella grande compostezza di un’interpretazione giocata su brevi e piccoli movimenti, Swinton ha saputo infondere grande intensità, stentando a trattenere le lacrime durante gli applausi. «È in assoluto l’artista che mi ha ispirato di più nella vita» ha dichiarato lei di Pasolini, ed evidentemente ha vissuto la prova del farsi testimone di quell’opera con forte emozione. L’uscita di scena nei panni di Totò, con la bombetta di Uccellacci uccellini, è stato il perfetto corollario.