L’incipit de La voce umana, il cortometraggio realizzato da Pedro Almodovar con Tilda Swinton a fine lockdown, era già stato diffuso dall’autore sui social nei giorni scorsi: lei in un grande teatro di posa con un monumentale abito di velluto color sangue; poi campo stretto sul suo viso, tutto «pallore e malinconia che fa impazzire i registi» come lei stessa ironizza nel corso di un film in cui il cineasta e la sua interprete giocano a citare e scompigliare la storia del cinema (e del teatro) con tutte le illusioni di cui si nutrono la messa in scena e la recitazione, un’opera densa di (auto)citazioni, di giochi a cavallo tra passato e presente, tra persona-attrice-personaggio. E non potrebbe essere altrimenti quando si affronta un grande classico come il testo di Cocteau, portato in scena da Rossellini con Anna Magnani, interpretato poi da Ingrid Bergman, fonte d’ispirazione per generazioni di autori tra cui Almodovar stesso che nel 1987 ne affidò un brano a Carmen Maura ne La legge del desiderio per poi sviluppare ulteriormente il monologo di partenza e realizzare Donne sull’orlo di una crisi di nervi.

ANCHE lì una donna abbandonata, sola con un cane e un telefono, in preda alla disperazione, pronta a uccidere e ad ardere il mondo perché sta per perdere l’uomo con cui ha vissuto una passione folle. E si potrebbe citare pure Il fiore del mio segreto.

C’È TUTTO Almodovar in questi trenta minuti colorati, barocchi, «grandguignoleschi» ipse dixit, in cui l’autore si appropria del testo di partenza e lo riscrive in chiave contemporanea per farne una revenge tragedy sfacciatamente e ironicamente griffata, in cui ogni oggetto o capo d’abbigliamento reca un monogramma noto, una linea inconfondibile o un’etichetta bene in vista. Swinton si aggira come una silfide delirante tra pareti che somigliano a quelle della vera casa del regista, viste in tanti suoi film, ma è solo cartongesso, l’illusione di cui sono fatti i nostri sogni d’amore e di cinema.

«HO UN AMICO monaco benedettino nel nord della Scozia che una volta mi ha detto: pregherò perché un giorno tu possa lavorare con Pedro. Ho pensato sarebbe un sogno ma è ridicolo e invece il sogno si è avverato ed è un onore», ha dichiarato Tilda Swinton giunta al Lido non soltanto per il film, ma in quanto vincitrice del Leone d’oro alla carriera e per una masterclass a cui si è presentata con addosso una commovente t-shirt del Caravaggio di Derek Jarman, l’autore di un sodalizio sublime durato otto anni con cui fu a Venezia nel 1991 per Edoardo II vincendo una Coppa Volpi. «Derek è stato il miracolo della mia vita. Mi ha insegnato a lavorare in gruppo e mi ha aperto gli occhi sul fatto che sarei potuta diventare non solo una filmmaker, come sognavo, ma anche una performer. All’epoca i miei miti erano Antonioni, Werner Schroeter, Fassbinder, avevo gusto ma poca esperienza e presentare Caravaggio alla Berlinale del 1986 fu un’esperienza supersonica, la scoperta di filmografie, paesi e persone che altrimenti non avrei mai conosciuto. Per questo i festival non devono morire, sono momenti unici d’incontro e crescita. Anche dopo quel film non pensavo che avrei continuato a recitare – ho sempre amato l’idea di un’apparizione e basta e infatti il mio personaggio cinematografico preferito è l’asino di Au hasard Balthazar – e invece eccomi qui».

LA PAROLA «carriera» non le piace, preferisce parlare di un percorso artistico in cui vita, arte e lavoro si fondono e piuttosto che una musa è stata per coloro con cui ha lavorato una co-autrice: «Ho bisogno che il film sgorghi da un legame, da una condivisione di sensibilità, come con Joanna Hogg, Wes Anderson o Luca Guadagnino, che ho incontrato subito dopo la morte di Derek ed è per me un altro lover-brother».
Per lei, che ha lavorato tanto nell’underground quanto nelle produzioni hollywoodiane a grosso budget, la distinzione tra mainstream e cinema d’autore nella sua filmografia è superflua: «mainstream è una parola che andrebbe declinata al plurale. Il cinema è l’arte più inclusiva che ci sia e io non sono snob dunque ritengo che il vero discrimine non stia nel budget ma nel grado di sperimentazione. Per me le grandi produzioni sono anche quelle di Cukor, Wyler, Hitchcock, Michael Powell e loro erano grandi sperimentatori. Quando mi hanno proposto progetti come Constantine di Francis Lawrence o Le cronache di Narnia di Andrew Adamson, ho accettato perché erano film capaci di osare e innovare».

ARTISTA oltre ogni confine, che ha amato la Berlino divisa dal Muro cantata da David Bowie, e ha sovente oltrepassato la frontiera tra maschile e femminile sin dai tempi in cui fu Orlando per Sally Potter, le abbiamo chiesto di commentare la decisione adottata recentemente dalla Berlinale di non attribuire più i premi agli interpreti distinguendo tra uomini e donne ma tra protagonisti e non: «era ora, che sollievo! Gli esseri umani sono molto interessati alle divisioni e alle compartimentazioni ma stanno iniziando a capire che dobbiamo smettere di dividere per genere, razza e classe e in base a ciò prescrivere norme e comportamenti. L’idea di rimanere ancorata a un’identità fissa mi rende triste e claustrofobica: perché dovrei essere definitivamente femminile, maschile, etero o omosessuale? Penso che valicare queste divisioni sia inevitabile e molti altri festival seguiranno quest’esempio».