Duemila chilometri separano Tikrit e Sana’a. Duemila chilometri in cui cambia volto la strategia statunitense in Medio Oriente. A Tikrit, città sunnita irachena, Washington combatte al fianco dell’Iran contro il califfato. A Sana’a, capitale dello Yemen occupata da settembre dagli sciiti Houthi, la Casa Bianca combatte per soffocare le mire politiche di Teheran.

In mezzo l’accordo sul nucleare, che potrebbe essere siglato tra pochi giorni a Losanna. Una possibilità che preoccupa l’Arabia Saudita e i regimi sunniti che vedono nel negoziato tra Iran e 5+1 un tappeto rosso srotolato ai piedi degli Ayatollah verso la legittimazione internazionale. Ed ecco che la politica statunitense si fa schizofrenica: un colpo al cerchio e uno alla botte, da una parte si parla con Teheran e dall’altra si tenta di indebolirne l’influenza.

Per farlo continuano a cadere bombe sullo Yemen, bombe saudite, sostenute da dieci paesi, tra cui alcuni (Egitto e Pakistan) pronti con le truppe di terra ad un’invasione per stroncare il movimento Houthi. Ieri per il secondo giorno consecutivo Sana’a è stata nel mirino dei jet della famiglia Saud: colpiti l’aeroporto, un campo di addestramento Usa, il palazzo presidenziale e la base militare di al-Dumeimi. Ai bombardamenti gli Houthi hanno risposto lanciando missili terra-aria e chiamando in piazza i propri sostenitori. Raid anche lungo il confine con l’Arabia Saudita e nella base Usa di al-Annad, occupata la scorsa settimana dagli sciiti durante la marcia verso Aden, capitale provvisoria del governo ufficiale.

A pagare lo scotto della crociata sunnita contro l’asse sciita è il popolo yemenita: sono già 40 i civili uccisi nell’operazione Tempesta Decisiva. I residenti della capitale cercano di recuperare tra le macerie effetti personali e di portare in salvo i feriti. Il timore è che la battaglia durerà a lungo, come promesso dai sauditi: i generali di Riyadh per ora allontanano l’ipotesi di un’invasione via terra, ma si dicono pronti a qualsiasi circostanza e a combattere il tempo necessario a restaurare il governo del presidente Hadi.

Secondo la stampa locale, l’Arabia Saudita avrebbe lanciato un ultimatum di tre giorni ai ribelli sciiti perché lascino la capitale, pena un’intensificazione dell’operazione militare. Ma gli Houthi non arretrano: ieri hanno occupato la città meridionale di Shaqra, garantendosi per ora il controllo del porto di Aden.

E mentre la Lega Araba che si incontrerà oggi in Egitto ha fatto sapere di puntare alla creazione di un esercito sunnita in chiave anti-Houthi, alla violenza saudita risponde l’Iran, considerato il diretto sostenitore dei ribelli. Ieri il ministro degli Esteri, Mohammed Javad Zarif, ha detto che Teheran è pronta «a cooperare con i suoi fratelli nella regione per facilitare il dialogo tra i diversi gruppi yemeniti».

Una dichiarazione volta a smorzare i toni, chiaro messaggio a Riyadh: che l’attacco allo Yemen sia in realtà un attacco all’Iran è palese, ma Teheran è fortemente intenzionata a non perdere l’occasione dell’accordo sul nucleare. Lo Yemen «è la questione del giorno – ha aggiunto Zarif – ma ciò non significa che non negozieremo perché il nostro negoziato è limitato al nucleare».

Così, se con una mano gli Usa forniscono voli di sorveglianza e intelligence all’esercito saudita, con l’altra dialogano con Teheran. E combattono al suo fianco a Tikrit. Giovedì è infatti giunta la svolta: Washington ha accolto la richiesta di Baghdad perché intervenga nella città sunnita occupata dall’Isis. Gli Usa hanno accettato. Ad una condizione: che le milizie sciite irachene e le forze iraniane alla loro testa si ritirino dalla prima linea e non prendano parte alla stabilizzazione della città una volta liberata.

Dell’accordo ufficioso stipulato con i pasdaran iraniani ha parlato giovedì al Senato il capo del Commando Centrale Usa, il generale Austin: i raid colpiranno lo Stato Islamico a Tikrit se l’Iran ritirerà le sue forze dalla prima linea. I gruppi sciiti Kataib Hezbollah e Asaib Ahl al-Haq hanno dato il loro assenso, pur criticando Baghdad per il diktat Usa. Le potenti milizie Badr no: non arretreremo, hanno già annunciato.

Dopo aver ottenuto in poche settimane più successi di quelli archiviati dalla coalizione in sei mesi, sciiti iracheni e Iran non intendono regalare la vittoria finale a Washington. Soprattutto in vista della più vasta operazione per la riconquista di Mosul, occasione d’oro per Teheran per radicare la propria influenza su Baghdad, ma anche per lo stesso premier al-Abadi che vuole far sentire la propria presenza sul terreno. Consapevole di non poterlo farlo con l’esercito regolare (a Tikrit sono solo 4mila i soldati governativi, affiancati da oltre 20mila miliziani sciiti guidati dall’Iran), un esercito ancora allo sbando dopo le purghe imposte dalla Casa Bianca nel dopo-Saddam, può riuscire nel suo intento solo appoggiandosi alle milizie sciite.

Anche se questo si tradurrà in un ulteriore acuirsi dei settarismi religiosi interni: sciiti contro sunniti, la stessa divisione che ha facilitato l’invasione islamista.