Alcune riflessioni fuor di polemica su Tikkun, secondo lavoro di lunga metratura di Avishai Sivan, che arriva a Locarno a cinque anni di distanza da quel Ha’Meshote (The wanderer) che tanto ci aveva aveva convinto alla Quinzaine del Festval di Cannes 2010. Il film ruota attorno al progressivo deragliare di Haim-Aaron, ebreo ortodosso chassida, un illui, un giovane-prodigio, di quelli ritenuti predestinati a divenire leaders o rabbini di grande importanza. L’iniziale e muto disagio del dottissimo giovane si manifesterà in forme sempre più palesi allontanandolo progressivamente dall’ortodossia e dalla sua fede, in una spirale di crescente devianza dagli esiti fatali. La laica riflessione di Sivan, che per altro prosegue e inasprisce per tenore polemico quella del film precedente, ci interessa al di là di ogni considerazione di ordine narratologico e socio-antropologico per la non comune caratura stilistica con cui viene portata sullo schermo. A inizio film la vita di Haim-Aaron è scandita dal ritmo lento simmetrico delle regolari incombenze rituali quotidiane i lavacri, le preghiere, la frequentazione della yeshiva col suo silenzio studioso. L’invarianza cristallizante di questo scorrere quasi immobile genera immagini-tempo purissime, da cui è espunto qualsiasi movimento di macchina, pervase da un’assenza di verbo quasi asfisiante. Monocromi quadri della stasi dipinti usando una scala di grigi dalla fine grana e dalla consistenza compatta, insensibile alle cromie ma ricca al suo interno di variazioni tonali e luministiche e dunque sorprendentemente plastica, in quanto a resa volumetrica. La non alternanza cromatica sortisce da subito effetti deprivativi sotto il profilo emozionale, qualcosa che attiene alla compressione dei sentimenti, all’avulsione della fantasia, cromogrammi di un’allegria in latitanza. Sivan, tra l’altro, sfrutta con maturità di resa i sottocodici figurali, e in molte inquadrature crea rigorose configurazioni geometriche sfruttando le ripartizioni delle immense librerie della yeshiva, gli infissi e le strutture murarie degli interni che sembrano imprigionare il corpo del suo personaggio in grate, cornici e riquadri, figurazioni del contenimento e della costrizione. Nella percezione dello spettatore l’assenza di colore e di diversivi sonori (oltre alla parola parlata scarseggiano anche gli elementi musicali) si sommano alle costruzioni geometriche coartanti, creando l’impressione, vaga per ora, di una prigionia dell’interiore. Questo livello del visivo orientato alla privazione e all’ingabbiamento viene affiancato sul piano diegetico da tutta una serie di azioni che vanno nella direzione della privazione, come il digiuno che Haim si auto impone o le varie pratiche di mortificazione corporea cui sottostà, riuscendo a creare una sorta di asettica sospensione, di ottundimento dello scorrere naturale e libero della vita. È in questa sorta di vuoto pneumatico che Sivan farà irrompere il perturbante, l’elemento in grado di scatenare la crisi, (preannunciato da brevi ma ricorrenti inquadrature di ripugnanti scarafaggi) a cui dà le forme graziose di un corpo femminile. Dopo l’incontro fortuito con una donna, infatti Haim-Aaron sperimenta, in un groviglio di bambinesca meraviglia e terrificante senso di colpa, un forte turbamento sessuale, che gli farà scoprire, forse per la prima volta in vita sua, la dimensione del corpo e delle sue pulsioni. E proprio il corpo diventa l’elemento trainante della parabola degradante del giovane un corpo che più volte si ferisce, che dunque è anche dolore, e che viene indagato nella sua componente desiderante e pulsionale, quando si gode il tepore del sole, quando tenta una visita nel bordello che fallisce per il senso di colpa. E questa indomita tensione vitale che alligna nella carne viene continuamente messa a confronto con la dimensione mortifera, che ritroviamo nelle continue scene di macellazione ed eviscerazioni (il padre lavora in un macello rituale kosher) o nelle grosse bistecche che Haim-Aaron esplora col gesto indagatore di un dito che penetra i tessuti gelidi, forse in cerca del mistero della vita nello stesso modo con cui esplorerà la vagina della donna «amata» quando la ritroverà, ormai morta sull’asfalto bagnato, degradata al ruolo di carne morta. La strategia di Sivan procede per stratificazioni tematiche e rimandi intratestuali simmetrici. Al dissidio tutto corporeo che investe la fede del figlio fa da contr’altare quella dell’anziano padre che lo strappa alla morte, volontà del Signore, con un vigoroso massaggio cardiaco e offre lo spunto per scene oniriche e surreali che ne figurativizzano il senso di colpa. Alla colpa del figlio si contrappongono continue scene in cui compare l’elemento purificatore dell’acqua di piogge sferzanti e di lavacri rituali, le scene delle vacche al macello sono specchio della sorte di Haim-Aaron, vittima sacrificale della fede. Rime, allitterazioni, metafore di un testo che cerca la poesia, prima della narrazione.