Si aggrava la catastrofe umanitaria in Etiopia, mentre sul piano diplomatico è quasi Abiy Ahmed contro tutti, Onu, Usa, Vaticano… L’arresto «senza spiegazioni» di 16 impiegati locali delle Nazioni unite, tutti tigrini, è l’ultimo passaggio di una crisi che aveva toccato il culmine con l’espulsione di 7 funzionari Onu per ingerenze a fine settembre. La conferma invece da fonti vaticane che 17 tra sacerdoti, diaconi e laici, etiopi ed eritrei, sono stati prelevati da un centro salesiano a Gottera e «portati in un luogo sconosciuto», è da inquadrare nell’ondata di arresti scatenatasi dopo la dichiarazione dello stato d’emergenza, con retate anche nelle chiese ortodosse tigrine e negli ambienti ritenuti vicini al Tigray People’s Liberation Front. Il cui portavoce Getachew Reda ha confermato ieri alla Bbc che l’avanzata verso Addis Abeba continua, ma al solo scopo di costringere il governo centrale a mollare la presa sul Tigray.

CACCIATE DAL TIGRAY DAI RAID aerei etiopi, dalle forze regionali Amhara e da un contingente eritreo dispiegato in una cortina fumogena di mezze ammissioni e mezze smentite, le forze tigrine si sono riarmate pesantemente e con mossa del cavallo hanno esteso il conflitto alle regioni Amhara e Afar. Ma ora l’unico ostacolo che il Tplf vede alla pace, dice Reda, è «l’ossessione del primo ministro Abiy Ahmed per una soluzione militare a quello che è essenzialmente un problema politico».

Che il problema sia politico lo dicono in tanti. Nel tentativo fin qui vano di fermare un confronto armato che in questa fase vede appunto all’offensiva le forze “ribelli”, nella capitale etiope si intensifica l’andirivieni di delegazioni e inviati speciali. Quello statunitense per il Corno d’Africa, Jeffrey Feltman, è tornato ieri per la seconda volta in pochi giorni a incontrare l’Alto rappresentante dell’Unione africana, l’ex presidente nigeriano Olusegun Obasanjo. Si vedrà se il tentativo di ottenere una tregua «immediata» e riaprire un dialogo tra le parti riuscirà a passare attraverso quella «finestra di opportunità molto piccola» evocata da Obasanjo la notte prima al Consiglio di sicurezza dell’Onu. E se si riuscirà a farlo alla svelta, visto che «il tempo è breve per qualsiasi intervento».

D’ALTRO CANTO LE FORZE TIGRINE da un lato e l’Oromo Liberation Army (Ola) dall’altro sono talmente all’offensiva da minacciare ormai la stessa capitale. A Addis da un paio di giorni oltre agli arresti si susseguono manifestazioni pro-governative e frequenti black out elettrici. Ieri è calata anche la scure su tutti i social e i servizi di messaggistica per decisione delle autorità. Mentre continuano le partenze degli stranieri: ieri ordini di evacuazione dei propri cittadini sono partite dalla Gran Bretagna come dallo Zambia.

Il premier Abiy Ahmed mobilita tutte le energie disponibili per prepararsi a resistere e a “sotterrare” il nemico, intanto la diplomazia Usa sembra aver riattivato vecchi canali di mediazione e di influenza sulle élite tigrine. Nei giorni scorsi ci sono stati contatti tra Casa bianca e Tplf. E lo stesso Obasanjo avrebbe avuto ieri colloqui «proficui» con il leader tigrino Debretsion Gebremichael.

DI CERTO, OLTRE A NUOVI MORTI e profughi, c’è la fine ingloriosa dell’idillio tra il premier etiope e il mondo intero iniziato all’indomani dell’assegnazione del Nobel per la pace che l’intesa siglata con l’Eritrea fruttò. Prima le tensioni internazionali generate dalla Grande diga del rinascimento etiope (Gerd); poi il conflitto scatenato per riconquistare piena sovranità sul Tigray, quasi un regolamento di vecchi e nuovi conti con il Tplf, accusato da ultimo di un massacro in una base dell’esercito federale.

Una guerra data per vinta a Addis Abeba, che un anno dopo offre il rovescio di queste ore.