Neanche l’appello del papa sembra aver scalfito le maniere forti con cui il primo ministro etiope Abiy Ahmed ha deciso di regolare la questione del Tigray. Ieri sesto giorno di guerra nella regione settentrionale del Paese, secessionista di fatto dopo che la sua élite ha dominato per decenni la scena politica nazionale. Le forze speciali del Fronte popolare di liberazione del Tigray (Tplf), denunciano il coinvolgimento, al fianco dei reparti dell’esercito federale, delle forze altrettanto speciali dell’Amhara. E accusa il governo di aver condotto almeno 10 bombardamenti aerei in aree densamente abitate della capitale regionale Macallè. Debretsion Gebremichael, ormai ex governatore, si appella all’Unione africana per un intervento immediato.

Il conflitto resta avvolto in un vuoto informativo dovuto alla mancanza di riscontri indipendenti sul campo. La chiusura delle reti telefoniche e di internet impedisce la ricerca di riscontri oggettivi ai comunicati delle parti in conflitto. Ahmed ha promesso che fornirà i dettagli a tempo debito, una volta tacitate le armi. Un ufficiale delle truppe federali ha dichiarato alla Reuters che negli scontri a Kirakir sarebbero stati uccisi quasi 500 miliziani tigrini. Ma vi sarebbero anche centinaia di morti tra le truppe federali dopo la battagliaper la conquista di Dansha.

L’OFFENSIVA DI AHMED prosegue anche sul piano istituzionale, con il parlamento che ieri ha votato la dissoluzione del governo regionale del Tigray e il commissariamento ad interim. È il «ripristino dello stato di diritto» che ieri il premier è tornato ad evocare. Manu militari. Ieri Ahmed ha licenziato il capo di stato maggiore dell’esercito Adem Mohammed, ha nominato un nuovo capo della polizia federale e ha sostituito il ministro degli Esteri. Ed è tornato ad accusare il Tplf di aver «sponsorizzato, addestrato ed equipaggiato qualsiasi forza che fosse disposta a impegnarsi in atti violenti e illegali per far deragliare la transizione democratica». Con riferimento ai sanguinosi incidenti seguiti all’omicidio della popstar oromo Hachaalu Hundessa e allo strappo più recente, il voto locale che nel Tigray si è svolto malgrado il lockdown nazionale imposto da Addis Abeba, Preludio al casus belli indicato da Ahmed, l’attacco delle forze speciali tigrine a una base federale.
Secondo Will Davison, analista senior dell’International Crisis Group, «il percorso per far arrendere la leadership del Tigray è arduo» e il Tplf potrebbe essere capace di una forte controffensiva. Il Tigray confina con l’Eritrea con cui l’Etiopia è stata in guerra per oltre vent’anni ed è ancora pieno di basi e armi pesanti che il Tplf sostiene di aver sottratto alle forze federali.

NEL MEZZO RESTANO gli oltre 96.000 rifugiati eritrei ospitati nei campi profughi del Tigray. Oltre alla sicurezza preoccupano i rifornimenti dato che le comunicazioni e le strade sono interrotte, i voli vietati. Chiuso anche il confine con il Sudan. Se i combattimenti dovessero estendersi le persone dovrebbero scegliere tra tornare in Eritrea rischiando la pena di morte o restare e rischiare di morire in Etiopia. Crescono al contempo i timori di un’ondata di profughi interni collegata al conflitto. E nel peggiore degli scenari possibili si rincorrono le voci circa l’eventiuale coinvolgimento della stessa Eritrea.

Fuori dalla base militare di Dansha i sue e i pickup militari sono contrassegnati da un’insegna di metallo nero con su scritto: «Costruiamo insieme un paese democratico».