Tra il dicembre 1943 e l’aprile 1945 Vicenza subì una fitta serie di bombardamenti alleati che distrussero e mutilarono il centro storico. Mai presentimento fu più indovinato di quello che ebbe Fausto Franco, allora soprintendente di Trieste, quando eseguì per tempo lo strappo degli affreschi di Giandomenico Tiepolo che decoravano il salone d’onore del palazzo vicentino di sua madre (sua di Franco) Giuseppina Valmarana. Come temuto, in una delle ultime incursioni aeree questo subì gravissimi danni, ma non andò distrutto come quello adiacente: il settecentesco palazzo Trento-Valmarana. Gli affreschi tiepoleschi erano stati messi in salvo dopo una preventiva campagna fotografica (Ferruzzi, 1944), mentre di quelli nel palazzo accanto dei cugini sopravvisse solo un tondo.
Ora sette di quegli affreschi miracolosamente salvati, a firma Giandomenico Tiepolo (1727-1804), compongono la mostra Tiepolo segreto curata da Guido Beltramini e Fabrizio Magani al Palladio Museum, il luogo che li custodirà per volontà degli ultimi eredi ai quali giunsero i diciassette strappi. Purtroppo non tutti, poiché le sorelle di Fausto Franco pensarono di disfarsi di una parte sul mercato antiquario, e chi volesse vederli dovrebbe andare all’hotel Hilton di Roma o avere accesso a quelli entrati a far parte della collezione Terruzzi o della casa d’aste Minerva Auctions.
L’esposizione vicentina non racconta però solo la storia di un’ordinaria dispersione, come bene illustra Maristella Vecchiato in catalogo (Officina Libraria). A Palazzo Barbaran si rappresenta una pagina inedita del connubio tra pittura e architettura, oltre le tragiche sciagure subite e qualche giusta riflessione teorica sui principi del restauro che per Franco furono sempre discordanti da quelli poi egemoni di Brandi. Ritorniamo però all’inizio, al 1773, quando Giandomenico termina la decorazione nel salone del palazzo di città di Gaetano Valmarana, figlio di Giustino, il nobile al quale si deve l’arruolamento dei Tiepolo per la sua villa «ai Nani» a San Bastian. Il pittore veneziano dimostra di aderire in pieno alla «sensibilità tutta vicentina del marchio palladiano» nelle storie del mito di Ercole dipinte dentro una partitura architettonica che rimanda, pur con le dovute differenze, alla scena del Teatro Olimpico di Andrea Palladio, di lì poco distante. Giandomenico è accorto interprete del gusto dei suoi committenti, come aveva dimostrato di esserlo quasi vent’anni prima nella villa sub-urbana dei Valmarana, con le scene della vita semplice della campagna-giardino, mentre il padre Giambattista si intratteneva con i poemi rinascimentali. Nella città berica, dopo vent’anni e la perdita del padre avvenuta nel 1770 durante la loro trasferta madrilena, Giandomenico lascia da parte i colori vivaci delle figure agresti mostrandosi a suo agio anche tra gli «amati classici», conoscitore attento, com’era, dell’Iconologia del Ripa, ma soprattutto padrone del repertorio lirico e epico paterno.
Il ciclo erculeo della sala del palazzo di contra’ San Faustino, ordinato all’interno della partitura architettonica di paraste scanalate con capitelli corinzi collegate in sommità da una trabeazione – opera probabile del quadraturista Paolo Guidolini –, si componeva, come ha rilevato Luca Fabbri, di finte sculture che conferivano alla sala il «carattere di gypsotheca». Dalla parete longitudinale sud provengono quelle che il visitatore si trova ora ad ammirare disposte una accanto all’altra nel Museum. Vi si trovavano in asse l’Ercole con la clava e Cerbero incatenato sopra un basamento con il Sacrificio del leone nemeo all’interno di un nicchione paragonabile per analogia all’arco centrale del teatro Olimpico dal quale si apre uno dei tre cannocchiali prospettici frontali che compongono la scena palladiana. Sempre la stessa parete conteneva dipinte le edicole timpanate sovrastate da ninfe e geni alati: a sinistra Giove e a destra una Figura femminile con clava – chi ha voluto identificarla con la moglie di Ercole, Deianira (Mariuz), chi con la sua regina-amante Onfale (Magani). Sulla scorta degli studi iconologici del Panofsky (Hercules am Scheidewege, 1930) perché mai non potrebbe essere l’allegoria della Virtus in lotta con la Voluptas? Si darebbe così soluzione anche all’altra Figura femminile, quella con clava e leontea, che si trovava nell’edicola a destra della parete nord con la Minerva posta sulla sinistra.
Lasciamo aperte le conclusioni. È tuttavia evidente che l’insieme tiepolesco con il suo registro neo-cinquecentesco reso solenne dalla monocromia – «total grey» precisa Magani – interpreta alla perfezione la tradizione classicista aderendo al revival palladiano in auge nel piccolo centro veneto. Vicenza sul finire del Settecento è un catalizzatore di cultori stranieri di Palladio. Il suo maggiore studioso, Ottavio Bertotti-Scamozzi (Le fabbriche e i disegni di Andrea Palladio, 1776-’83), e l’Accademia degli Olimpici sono i garanti intransigenti dell’eredità del loro celebre architetto. A Giandomenico, però, l’ortodossia non si addice e satiri e satiresse che ornano le sovrapporte del palazzo Valmarana-Franco sembrano bene evidenziarlo: irridono alle pose auliche e alla reverenza verso la sacralità dell’antico. La disinvolta maniera, poi, di dipingere l’intero ciclo pare confermare ciò che vide già Calasso riguardo ai Tiepolo, ovvero quell’arte della sprezzatura che come spiegò Baldassare Castiglione è «vera arte che non pare esser arte», in altri termini un segno della grazia raggiunta «senza fatica e quasi senza pensarvi». Sono queste le molteplici ragioni, tra apparente nonchalance e «personale divertissement», a rendere Giandomenico un artista eterodosso impossibile da ingabbiare dentro le rigide maglie dei classicismi (Winckelmann, Mengs). Non sta allora qui la sua vera vicinanza, eretica, a Palladio?